La Jonia è un breve tratto della costa occidentale dell'Asia Minore, premuta, nel retroterra, da popolazioni evolute, ma non greche, e fronteggiate da alcune grosse isole, che ne rappresentavano forse la parte più ricca. Le città più celebri di questo frastagliato litorale sono, da nord a sud, Focea, Smirne, Clazòmene (leggermente all'interno), Efeso e Mileto; le isole più importanti, Chio e Samo. Gli estremi della costa jonica distano fra loro, in linea d'aria, meno di 150 chilometri; Sardi, la capitale di Creso, re della Lidia, si trova a meno di ottanta chilometri a est di Smirne e del mare.
Ebbene, in questo ristrettissimo ambito, nel corso di pochi secoli, sono fioriti avvenimenti eccezionali per la storia della cultura e per l'evoluzione della civiltà. Fra l'isola di Chio e la città di Smirne, due luoghi che, insieme ad altri, si contendono il vanto di aver dato i natali a Omero, si è costituita la tradizione orale dell'"Odissea", nel IX secolo a.C., e dell'" Iliade " nell'VIII. In una città della costa, quasi certamente ad Efeso, intorno al 625 a.C., cioè più o meno all'epoca della nascita di Talete, si sono cominciate a battere le prime monete metalliche, un'invenzione squisitamente greca, che si sarebbe rapidamente diffusa nel Mediterraneo per offerte votive nei templi e per gli scambi di metalli, di sale, di grano, di schiavi e di oggetti pregiati; e in seguito avrebbe conquistato tutti i principali mercati, specialmente come conseguenza delle conquiste di Alessandro Magno, avvenute nei dodici anni che vanno dal 335 al 323 a.C.
Ma per quanto ci concerne, la vicenda di gran lunga più importante si è svolta, o, almeno, si è iniziata a Mileto e nella vicina Samo, nel VI sec. a.C.; di questa vicenda furono protagonisti uomini di cultura che la civiltà non aveva ancora conosciuto e che in principio furono annoverati fra i saggi o sapienti, e poi, con Pitagora, furono chiamati filosofi, cioè amici della saggezza. Si tratta infatti degli iniziatori della filosofia, anch'essa un dono tutto greco alla nostra civiltà.
Il razionalismo greco
Il primo oggetto di studio della filosofia greca fu la natura; e i filosofi naturali, la cui serie si inizia a Mileto con Talete e prosegue nella stessa città con Anassimandro e Anassimene, stabiliscono una delle più grandi rivoluzioni di pensiero conosciute dall'umanità. Lo scopo della loro ricerca, infatti, ambizioso e audace allo stesso tempo, era quello di spiegare il fenomeno naturale, anziché col mythos, come avveniva in Omero e in Esiodo, col logos, cioè col ragionamento. Ad esempio, non si indicherà più in Zeus l'origine della pioggia, dei fulmini e dei tuoni, e in esseri soprannaturali la causa dei cicli vegetativi, delle cascate dei torrenti, del flusso dei fiumi, dell'umore del mare, e così via. Per il loro difficile intento, i filosofi di Mileto mettono a profitto le esperienze fatte nei loro viaggi e le notizie che giungono al loro importante emporio, allora su di un'ampia rada, poi colmata dalle alluvioni del Menandro. Tali esperienze e tali notizie vengono vagliate da un acume in cui vi sono fermenti nuovi, e comincia così un'avventura dello spirito, che non era stata ancora tentata, e che, con i mezzi limitati di conoscenza di cui si disponeva, ovviamente non poteva dare vistosi successi. Tuttavia, per il divenire della nostra cultura, è stata fondamentale: la filosofia naturale greca, infatti, è il primo manifestarsi della scienza, come ricerca di una spiegazione razionale.
Il cielo, l'oceano e la terra
Che Talete osservasse il cielo può essere testimoniato da un episodio riportato insistentemente da quanti, nell'antichità, hanno parlato di lui. Rientrando a casa, una sera, anziché dove metteva i piedi, egli guardava il cielo che cominciava a riempirsi di stelle, tanto che, ad un certo punto, cadde in un pozzo, e la serva che lo seguiva a rispettosa distanza sarebbe esplosa in una sonora risata. Quel trabocchetto doveva essere, quasi certamente, una pozza infossata per abbeverare il bestiame o attingere acqua; nulla di tragico, quindi, ma solo un bagno inopinato, una sgradevole avventura, che destava ilarità perché sembrava contraddire la grande reputazione che godeva quel personaggio. E di pensatori e scienziati bersagliati da una ironia, che spesso si attribuiva alle persone più semplici, ma che in realtà era raccolta e propalata da quanti si rifiutavano alla profonda innovazione di cui tali personaggi si facevano portatori, è piena la storia della scienza e non solo della scienza. E non sempre, disgraziatamente, ci si limitava a far semplicemente dell'ironia!
Talete è indubbiamente uno dei più grandi innovatori nella storia del pensiero, ed è giusto che sia il primo dei protagonisti che passeremo in rassegna. Non mancano, anche fra gli autori moderni, quelli che vorrebbero ridimensionarne la importanza, perché, oltre ad aver dato i suoi insegnamenti solo oralmente, lo trovano ancora troppo legato alla tradizione (è un po' quanto si rimprovera o si è rimproverato a Copernico). É noto che Talete considerò origine o radice di tutte le cose l'acqua, dalla quale tutto deriva e alla quale tutto ritorna; e la Terra è un discoide che galleggia sulle acque dell'oceano, trattenute dalla volta sferica e materiale del cielo, che si chiude al disotto del complesso acqua-terra e ruota intorno ad esso ogni giorno, trascinando le stelle, e con qualche slittamento, i luminari e i pianeti. E il primo tentativo di una cosmologia razionale; ma si è voluto vedervi la suggestione della "paternità" dell'oceano e della rappresentazione che Omero fa della Terra nello scudo di Achille. Se si guarda con più attenzione, ci si accorge che Talete è, in effetti, il primo che ha abbandonato il mito, e ha imboccato quella che sarà una delle strade maestre della scienza: ricondurre la molteplicità dei fenomeni ad uno o a pochi principi. La scelta dell'acqua aveva due giustificazioni razionali e naturalistiche. L'acqua è elemento indispensabile alla vita (ogni seme, per compiere il suo ciclo, ha bisogno di umidità); inoltre l'acqua era l'unico "elemento" che si conoscesse nei tre stati della materia: solido, liquido e gassoso, e che, a certe condizioni, potesse passare reversibilmente dall'uno all'altro di essi. La parte più nuova e feconda, nell'insegnamento di Talete, è il fatto che egli considera che l'elemento primordiale, pur trasformandosi in mille modi, si conserva. Siamo di fronte alla prima legge della fisica, la legge di conservazione della materia (oggi si direbbe della massa), che nella seconda metà del XVIII secolo Lavoisier enuncerà dicendo che in natura nulla si crea e nulla si distrugge. Inoltre va ricordato che Talete accolse dall'Oriente e dall'Egitto solo le nozioni che gli sembrano suscettibili di una spiegazione razionale. Vi furono quindi importanti esclusioni, alcune positive, altre negative. Egli ad esempio non accolse l'astrologia dei Caldei, che ai suoi tempi era al suo massimo splendore; però non ritenne neppure di dover accogliere l'idea di una Terra rotonda, quasi certamente già affermatasi anche in Egitto. E questo perché, pensando che il Sole fosse ad una distanza paragonabile a quelle terrestri e quindi avesse dimensioni molto più piccole di quelle della Terra, nel suo moto regolare intorno ad una Terra sferica non si sarebbero mai avute giornate uguali alle notti o addirittura più lunghe, come accade in estate.
Coloro che a Mileto continuarono l'insegnamento di Talete (anche con opere scritte, che però non ci sono pervenute che in brevi citazioni, spesso tarde), e cioè Anassimandro prima e Anassimène poi, si mantennero fedeli ad un unico, anche se diverso, principio di tutte le cose, e cioè individuarono la sostanza elementare nell'indefinito il primo, e nell'aria il secondo. Quanto alla loro cosmologia, invece, si registra una evoluzione più notevole. Per Anassimandro la Terra è un cilindro in equilibrio indifferente nello spazio. Ci sono state tramandate anche le proporzioni che egli gli attribuiva: "un cilindro la cui altezza è un terzo della sua larghezza". Questa notizia però, se non deve essere diversamente interpretata, sembra in contrasto con un'altra tradizione, che attribuisce ad Anassimandro il merito di aver insegnato ai Greci l'uso dello gnomone, già noto in Egitto e in Oriente, e delle indicazioni della sua ombra, che varia con la latitudine. Anassimandro è il primo dei filosofi greci ad affidare ad uno scritto, forse ad un poema, i suoi molti insegnamenti e le sue notevoli intuizioni. Fra l'altro sembra che attribuisse al suo unico principio, l'àpeiron, che abbiamo tradotto indefinito, ma che può significare anche illimitato, l'origine "di tutti gli innumerevoli mondi". E questo un concetto poco frequente nel pensiero greco, e che verrà rifiutato da Aristotele.
Anassimène, riferendosi come principio all'aria, sembra ritornare ad una razionalità più aderente alle sensazioni, più realistica, più accessibile. Tuttavia non mancano gli spunti per un ulteriore approfondimento della natura e del mondo che ci circonda. L'aria è allo stesso tempo vapore e spirito, e le varie sostanze si distinguono per la sua maggiore o minore concentrazione (massima nei corpi più pesanti) o per la sua rarefazione (che è al suo limite nel fuoco). Per la Terra, egli ripropone una forma piatta, un disco sottile, cioè, sostenuto e trattenuto dall'aria.
L'Universo secondo Anassimandro (VI secolo a.C.).
La sfericità della Terra
Coi filosofi successivi comincia tuttavia a farsi strada l'idea di una Terra sferica, già da tempo recepita, come si è detto, in Egitto, e, forse ancor prima, in Mesopotamia. Pitagora, che viaggiò a lungo, e che fu attentissimo alle simmetrie che si verificano in natura, tanto da indicare l'armonia come la legge fondamentale del cosmo, cioè di una "bellezza ben ordinata" (i latini parleranno analogamente di mundus), Pitagora dunque, intorno al 500 a.C., forse fu il primo ad insegnare ai Greci che la Terra è rotonda. Una moneta di età imperiale, coniata a Samo, ci mostra una statua di Pitagora (PYTAGORES SAMION in caratteri greci) certamente molto più antica della moneta che la riproduce, raffigurante il filosofo seduto che, a quanto sembra, con un compasso prende delle misure su di un globo posto davanti a lui, una figurazione che ricorre in altri antichi cimeli, ripresa anche da artisti relativamente recenti. Quella statua, dedicata a Pitagora dalla sua isola, è certamente ispirata ad una vecchia e non inverosimile tradizione. E la consapevolezza che la Terra è sferica è una tappa fondamentale, non solo per l'astronomia, ma per la civiltà e la cultura nel loro più vasto significato. E non si tratta di una semplice intuizione, che non avrebbe affatto appagato il razionalismo greco, pur sensibile alle ragioni di armonia e dì simmetria dei pitagorici; o, meglio, non si ferma ad essa. Ben presto cominciarono prove e verifiche. Parmenide di Elea nella Magna Grecia, cioè di quella stessa frontiera occidentale e floridissima del mondo greco nella quale Pitagora era emigrato dalla Jonia, parla delle fasce climatiche e dei cieli concentrici alla Terra. L'ombra dello gnomone acquista anche per i Greci tutta la sua utilità: a mezzogiorno dello stesso giorno essa è più breve verso l'equatore, più lunga verso il polo. Inoltre, il fatto che le stelle presso il polo celeste (quelle che descrivono nella notte i cerchi più piccoli), per chi viaggia verso nord, sono sempre più alte sull'orizzonte è un'ulteriore prova che la Terra è rotonda. Fra l'altro i marinai si faranno sempre più arditi navigando nell'oceano, un mare immenso, nel quale però temono sempre meno le paurose discontinuità.
Ormai la Terra è considerata un corpo celeste, e un altro pitagorico, Filolao, alla fine dei V secolo, cioè verso il 400 a.C., ipotizza un "fuoco centrale", intorno al quale la nostra Terra ruoterebbe come il Sole e gli altri astri, senza mai vederlo, perché continuamente "schermato " da una "antiterra", in un complicato sistema del mondo, non facilmente rappresentabile.
Pitagora in un'incisione riproducente un'antica moneta.
Il ruolo di Atene
La filosofia è fuor d'ogni dubbio uno dei tanti doni che l'umanità ha avuto dai Greci. Ma, come abbiamo visto, essa è fiorita, nella sua prima forma di filosofia della natura, ai margini di quella civiltà in Asia Minore e nell'italia meridionale, dove forse era più libera e più facilmente raggiunta da fecondi stimoli di quei mondo che i Greci più rigidi consideravano barbaro. Chi ha portato la filosofia nel cuore del mondo greco, ad Atene, è di nuovo un grande filosofo jonico, Anassagora di Clazòmene. Egli era già ad Atene da una quindicina d'anni quando Pericle, nel 454, vi faceva trasportare il tesoro della Lega fino a quei momento conservato nell'isola di Delo, e faceva della sua città, che nei 488 aveva vinto da sola i Persiani, la metropoli più splendida e più potente del momento. Fu una breve stagione, che tuttavia lasciò segni incancellabili, anche nella storia del pensiero.
Amica, confidente e forse segreta ispiratrice di Pericle era Aspasia, anch'essa ionica, anzi proprio di Mileto. Forse a metà strada fra la gran dama e l'avventuriera, ella raccolse intorno a sé una sorta di circolo di intellettuali e di artisti, quasi un salotto "ante litteram" dell'epoca dei lumi o del periodo neoclassico. Coloro che si trovavano nella ricca dimora di Aspasia, il cui nome e il cui ricordo esercitarono una forte suggestione anche su Leopardi, erano personaggi come il giovane Ippocrate, destinato a diventare uno dei medici più famosi, il matematico Metone, Tucidide, che sarà testimone della tragica fine di quello splendido periodo, e tanti altri, fra cui Fidia. Ma, di loro, Anassagora era il numero uno, tenuto in grande considerazione da Pericle, non solo come saggio teoreta, ma soprattutto come valido consigliere in materia di politica e anche nei campo delle arti, intese queste ultime nel senso più lato di tale termine.
Anassagora è di fondamentale importanza, per la storia dell'astronomia, perché, senza reticenze e con estrema chiarezza, estese la spiegazione razionale e naturalistica non solo ai fenomeni atmosferici, ma anche a quelli più propriamente celesti, trattati, forse per la prima volta, alla stregua di quelli terrestri.
Come prima cosa degna di nota, occorre ricordare che Anassagora propone l'esistenza di una materia estremamente rarefatta, l'etere, che occupa ogni luogo, anche sulla Terra, e che, negli spazi, crea un vortice che trascina i corpi celesti. Tralasciando la sua teoria dei semi, ispirata ai fenomeni di crescita degli organismi viventi che sembrano "trasformare ciò di cui si nutrono", veniamo alle sue concezioni in campo astronomico, che dovettero non poco stupire i suoi contemporanei. Egli infatti affermò che il Sole e le stelle altro non sono che pietre infuocate; e per dare un'idea della loro grandezza e della loro distanza, disse che il Sole era più grande del Peloponneso! E, come ricorda Plutarco fra il primo e il secondo secolo dell’era volgare, Anassagora additava, a riprova della sua teoria, una grande meteorite, che tutti veneravano perché "discesa dal cielo", ed aggiungeva inoltre che essa altro non era che una "pietra" staccatasi da un corpo celeste, nei quale si era verificato un cataclisma, come ad esempio una frana o un terremoto, e che in seguito a ciò era "caduta" sulla Terra. Tanta libertà di pensiero non mancò di irritare e di sollevare l'opinione pubblica contro di lui e i suoi amici. Dopo le insinuazioni e le critiche pesanti della commedia, che prese particolarmente di mira Aspasia, cominciarono i processi, e Anassagora è probabilmente il primo filosofo che viene incriminato e arrestato per empietà. Solo i buoni uffici di Pericle riuscirono a evitargli il carcere. Ma Anassagora dovette prendere la via dell'esilio e si recò a Làmpsaco, vecchio stanziamento di coloni di Mileto sulla costa asiatica dell'Ellesponto, cioè dei Dardanelii, di fronte a Gallipoli. Morì fra il 428 e il 427: in quello stesso biennio ad Atene, o comunque da un'illustre famiglia ateniese, nasceva Platone.
Il primo astronomo: Eudosso
Prima che con i Sofisti, Socrate e Platone, la ricerca filosofica si sposti dalla natura all'uomo, secondo il fondamentale precetto attribuito a Socrate, "conosci te stesso", la filosofia naturale greca raggiunge il suo apice nell'atomismo di Democrito, di una generazione più giovane di Anassagora, del quale Democrito certamente conosceva gli insegnamenti. il suo principale ispiratore, però, fu Leucippo, una figura che sfuma nella leggenda e del quale si sa di certo quasi soltanto che era di Mileto. A base della sua teoria, Democrito pone gli atomi, di per sé impercettibili, i quali, in continuo movimento si combinano a caso nel vuoto. Gli atomi sono infiniti e di infinite forme: il nostro mondo, pertanto, è infinito, ed è uno degli infiniti mondi. Concetti nuovi, per il pensiero classico e particolarmente per quello greco. Aristotele li rifiuterà come assurdi; eppure, ripresi da Epicuro e ben accolti a Roma non solo da Lucrezio, ma anche da Vitruvio, Virgilio e Orazio, benché avversati dalle più importanti scuole filosofiche e dalle religioni monoteistiche, rimarranno nel substrato della cultura occidentale e rappresenteranno uno dei fermenti del ricostituirsi della scienza nei Rinascimento e nell'età barocca. Quanto a Platone, che trasporta la realtà vera nel mondo ultraterreno delle idee, sembrerebbe responsabile di una svolta antiscientifica dei pensiero antico. Invece non è così, specialmente per quanto concerne l'astronomia. Anzitutto egli diede grande importanza all'insegnamento della geometria: si dice che sulla porta dell'Accademia, la sua scuola d'élite, avesse fatto scrivere: "Non entri chi non è portato alla geometria". E il privilegiare tale materia è la prima condizione perché si sviluppi un'astronomia che non sia semplicemente un'empirica raccolta di dati e di date. Per una simmetria e un’armonia che si addicono alla perfezione dei cicli, ma anche per spiegare la rigorosa periodicità dei moti degli astri, Platone ipotizzava che essi fossero animati esclusivamente da moti circolari e uniformi, un concetto che vivrà a lungo. Egli immaginava un universo monocentrico, con la rivoluzione degli astri e delle stelle intorno alla Terra sferica, ma immobile; la successione dei corpi celesti che facevano corona alla Terra, dopo la Luna, era: Sole, Mercurio e Venere, mentre per i pianeti esterni essa coincideva con quella tradizionalmente attribuita ai Pitagorici e quindi ripresa e confermata da Eudosso, da Aristotele e infine da Tolomeo.
I Platonici, invece, rimasero di solito fedeli a quest'ordine, mai accolto dagli astronomi. Solo un neoplatonico, Porfirio, allievo di Plotino e attivo a Roma fra il terzo e il quarto secolo della nostra era, incauto precursore di Keplero, per trovare un'armonia musicale nella successione dei periodi dei pianeti, invertì il posto di Venere con quello di Mercurio, che veniva a trovarsi così al quarto posto partendo dalla Terra, collocato fra Venere e Marte.
Platone sapeva molto bene che, a differenza delle stelle fisse, i due luminari si spostavano da occidente a oriente, percorrendo a ritroso le costellazioni della fascia dello zodiaco, in modo tutt'altro che uniforme; e i pianeti, nella loro analoga risalita dello zodiaco, non seguivano certo orbite circolari. Tuttavia Platone era convinto che queste apparenti irregolarità, e in particolare il fatto che periodicamente i pianeti diventavano stazionari o retrogradi, derivasse dalla combinazione di vari moti, tutti, però, circolari e uniformi. in altre parole, egli pensava che, con l'aiuto della geometria, si potessero stabilire le orbite dei luminari e dei pianeti come risultanti di più moti circolari e uniformi. Sfidò allora i suoi allievi (e anche se in questa tradizione giuoca un certo ruolo la leggenda, una base storica è certa) a risolvere tale problema geometricamente; cosa che riuscì ad uno solo, Eudosso.
Si trattava di un brillante, ma inusuale frequentatore dell'Accademia. Eudosso infatti era uno straniero, un dorico di Cnido, città famosa per il culto di Venere-Afrodite, in cima ad una stretta penisola che si allunga nell'Egeo fra Rodi e Coo (dal capoluogo di quest'ultima dista in linea d'aria una ventina di chilometri); quindi una città sulla costa frastagliata dell'Asia Minore, poco a sud della Jonia. Per di più Eudosso era di umile origine, e poté andare a frequentare la costosa scuola di Atene perché i suoi concittadini, accortisi dei talento di questo ragazzo, raccolsero a tal fine una colletta, quasi una borsa di studio dell'inizio dei quarto secolo avanti Cristo! Sembra che ad iniziare Eudosso alla geometria, alla teoria dei numeri e alla musica sia stato il grande Archita, pitagorico di Taranto, e che maestri non meno eminenti egli abbia avuto per la medicina e per il diritto: fra l'altro si ha ragione di ritenere che egli abbia dato o corretto un corpo di leggi per la sua città natale. Quindi una personalità cospicua, la quale, come gli altri filosofi dei tempo, coltiva tutti i rami dello scibile. Ma è uno dei primi a dare la maggior importanza alle scienze, e soprattutto all'astronomia, partendo da una solidissima base geometrica. In epoca ellenistica, sia Euclide per i suoi "Elementi", sia Apollonio per le sue "Coniche" partiranno dagli scritti di Eùdosso. Quanto al suo soggiorno in Egitto, egli deve averne riportato una notevole esperienza per l'osservazione del cielo.
Ritornato in patria, di qui si spostò in un secondo tempo più a nord, e fondò una scuola e un osservatorio (quasi certamente il primo del mondo greco) a Cizico, vecchia colonia di Mileto su di un promontorio della costa asiatica della Propontide, cioè del Mar di Marmara. Ed è appunto per la latitudine di Cizico e per l'epoca in cui osservava Eudosso che, come dice Arato nei suo poema sulla descrizione del ciclo, scritto nella prima metà dei III sec. a.C., ma fedele interpretazione di un testo di Eudosso, "la testa del Drago, nella sua rotazione intorno al polo, sfiora l'orizzonte".
La soluzione che Eudosso diede al problema posto da Platone e che portò alla formulazione del primo organico e razionale "sistema del mondo", non è il solo contributo che egli diede all'astronomia, ma indubbiamente è quello che lo ha reso celebre. Se il moto del Sole e della Luna, da occidente a oriente, ha solo delle variazioni in velocità e latitudine, quello dei pianeti è, come ben sappiamo, molto più irregolare. Se il piano dell'orbita del pianeta coincidesse con quello dell’eclittica noi vedremmo ogni anno il pianeta arrestarsi e percorrere un tratto della sua orbita a ritroso, tanto più breve, quanto più il pianeta è lento, e quindi quanto più esso è presumibilmente lontano. Poiché il piano in cui il pianeta si muove non è mai perfettamente coincidente con quello dell'eclittica, vediamo che esso percorre una specie di esse schiacciata o una boccola, una curva cioè che Eudosso chiamò "ippopede", cioè percorso di un cavallo "impastoiato" (oggi diremmo una lemniscata sferica). Eudosso immaginò che ognuno dei cinque pianeti fosse mosso da quattro sfere concentriche alla Terra e imperniate l'una nell'altra. Per i due luminari le sfere si limitavano a tre.
Si tratta di uno schema a tre dimensioni che non è facile ripetere a parole o con un disegno in piano. Ad ogni modo tenteremo. Ogni pianeta era solidale alla sfera più interna, in corrispondenza dei suo equatore, sfera che aveva una certa velocità, e ruotava intorno ad un asse che con una certa inclinazione era imperniato nella terza sfera. Questa ruotava in senso inverso con la stessa velocità, ma con una diversa inclinazione, imperniata a sua volta nella seconda sfera, che era quella dei ciclo annuo delle stagioni; e così si giungeva alla prima, più esterna, che era responsabile del moto diurno e quindi compiva un giro ogni giorno. La composizione di questi moti, tutti uniformi e circolari, concentrici alla Terra, dava luogo al movimento apparentemente irregolare che noi osserviamo in ciascun pianeta. Le quattro sfere servivano a render conto del moto di rotazione e di quello di rivoluzione della Terra ritenuta immobile (rispettivamente prima e seconda sfera), nonché dei moto orbitale e dell'inclinazione dell'orbita del pianeta (terza e quarta sfera). Per i due luminari le sfere erano tre. Per la Luna le tre sfere, cominciando dalla più esterna, rappresentavano la prima, al solito, il moto diurno, la seconda il moto mensile della Luna e la terza la retrogradazione dei nodi, cioè delle intersezioni con l'eclittica. Per il Sole, a rigore, sarebbero bastate due sole sfere; ma Eudosso volle tener conto di un ipotetico spostamento del Sole in latitudine, cioè rispetto all'eclittica.
Questo sistema, a differenza di quanto avverrà in quello di Tolomeo, presuppone che le distanze dalla Terra di ogni pianeta, del Sole e della Luna rimangano costanti, in contrasto con molte evidenti osservazioni, che certamente Eudosso non ignorava. Tuttavia, egli aveva dato in un modo sufficientemente preciso, anche se necessariamente complicato, la spiegazione geometrica della velocità dei pianeti e del loro corso, come gli era stato richiesto. Il suo non era un sistema fisico, una specie di modello materiale quale può essere un planetario; ma semplicemente un modello geometrico, uno strumento di calcolo. E chi lo proponeva non si preoccupava di come si trasmettesse il moto alle sfere, tanto che ogni sistema era indipendente da quello che Io precedeva e da quello che lo seguiva. Oggi il sistema delle sfere omocentriche, o, alla latina, concentriche di Eudosso richiama e affatica tutta la nostra attenzione per l'importanza che hanno avuto in seguito i sistemi del mondo per Aristotele, che separò la fisica della Terra da quella dei cieli, per gli astrologi, che dovevano determinare la posizione dei pianeti nelle costellazioni dello zodiaco per i loro oroscopi, infine per la nuova scienza, da Copernico a Newton, la quale cercò nei movimenti celesti la verifica dei fondamentali principi della meccanica, riunificando sotto le stesse leggi la fisica del cielo e quella della Terra.
Ai tempi di Eudosso, il problema si può dire che interessasse soltanto Platone e la cerchia dei suoi allievi. Platone, a differenza di quanto è stato più volte affermato, non accetta affatto l'astrologia caldea; segna piuttosto un ritorno o una conferma della religione degli astri. I pianeti vaganti fra le stelle erano per lui altrettante divinità, e per questo andavano seguiti e venerati. Quanto al preteso consenso di Platone alla falsa scienza che studia gli influssi celesti sui destino degli uomini, tutto sommato è probabilmente vero il contrario: l'astrologia, diffondendosi in Grecia, si trasformerà profondamente, e questo anche per effetto dei pensiero di Platone.
La fama e l'importanza di Eudosso fra i suoi contemporanei, e anche fra la maggior parte dei curiosi della natura delle generazioni successive, è quindi affidata alle molte altre sue opere, cui si è in parte accennato. In astronomia descrittiva e in meteorologia il magistero di Eudosso è fondamentale. In una sua opera nota come "I fenomeni" egli dava un'accurata descrizione del cielo stellato e insegnava a riconoscere tutte le costellazioni visibili alle nostre latitudini e a disegnare idealmente fra di esse i principali cerchi di riferimento della volta stellata, una guida quindi particolarmente utile ai naviganti e a chi doveva orientarsi di notte nei deserto. In un'altra sua opera, nota come "I pronostici" Eudosso insegnava al pastore e al contadino come interpretare i variabili segni dati dal vento, dalle nuvole e da tutti quegli eventi che Aristotele chiamerà "meteore", per trarre verosimili previsioni sui tempo che farà. Intorno ai 270 a.C., cioè circa un secolo dopo, il poeta Arato, per incarico del re di Macedonia, Antigono Gònata, metterà in versi queste due opere che Eudosso aveva scritto in prosa, una prosa che doveva essere divenuta ostica e antiquata. Arato arricchì la descrizione del cielo con immagini poetiche, ma rimase fedelissimo all'originale. Si tratta di quello che si usa definire un poema didascalico; e infatti esso, facile per i suoi ritmi da impararsi a memoria, servì per generazioni, fino ad un passato relativamente recente, per il primo insegnamento dell'astronomia e della meteorologia, senza il minimo accenno al moto dei pianeti, e quindi in una posizione assolutamente neutrale nei confronti dell'astrologia. Contro di esso, intorno alla metà dei Il sec. a.C., si levò severa la voce del grande Ipparco (circa 180-125 a.C.), che aspirava al titolo di principe degli astronomi. La sua, naturalmente, era una critica indiretta alla descrizione del cielo che aveva fatto Eudosso più di tre secoli prima. In tale descrizione Eudosso faceva frequenti riferimenti agli "orti" e agli "occasi" simultanei; cioè indicava certe stelle che si levavano a oriente nello stesso momento in cui altre tramontavano a occidente. Ipparco fece grande clamore, mostrando che queste coincidenze non erano rigorose. Non si era accorto, proprio lui che, forse per primo, aveva scoperto la precessione degli equinozi, che questo importante fenomeno celeste influisce anche sulla concomitanza del sorgere e del tramontare di certe coppie di stelle. Quindi, in effetti, la descrizione di Eudosso non era affatto sbagliata: doveva soltanto essere aggiornata.
Platone (V secolo a.C.): Parigi, Museo del Louvre.
Aristotele
Si può dire che il grande filosofo nato nel 384 a Stagira, un piccolo centro prossimo alla costa dell'Egeo settentrionale, poco distante dalla Macedonia, sia stato il primo serio cultore di scienze naturali e di scienze umane, con interessi che spaziavano dalla classificazione delle piante e degli animali, alle leggi costituzionali delle città-stato della Grecia. I numerosi scritti, che ci sono rimasti, vanno da quelli di "fisica", la disciplina che tratta della natura e in particolare delle varie specie di moti o mutamenti, a quelli di psicologia, questi ultimi riconosciuti praticamente insuperati fino all'Ottocento. Ma certo non si può dire che Aristotele, alieno alla geometria e nemico dei numeri, sia stato un astronomo. Eppure, la sua cosmologia, elemento base del suo sistema filosofico, ha incredibilmente influenzato e condizionato l'astronomia per circa mille e ottocento anni! Per Aristotele il mondo era pregiudizialmente pieno e finito, e si divideva nettamente in due "nature": quella dei cieli sferici e concentrici, una natura perfetta e immutabile, che era costituita esclusivamente di etere, la quinta essenza che era tutta nei cieli; e quella dei mondo sublunare o delle sfere elementari, nelle quali l'ordine era solamente una tendenza, un fine sempre perseguito, ma mai raggiunto. Il mondo sublunare era quindi il regno dell'imperfetto e del mutevole, formato anch'esso da sfere concentriche, quattro per la precisione, ognuna luogo "naturale" dei quattro elementi dei quali sono composte tutte le cose di cui abbiamo conoscenza diretta. Partendo dal centro, si aveva la sfera della Terra, fasciata da quella dell'acqua, cui seguiva quella dell'aria e infine, dopo questa, c'era la sfera dei fuoco. Terra e acqua erano elementi pesanti in assoluto; aria e fuoco leggeri in assoluto. Ogni corpo tendeva per la via più breve, cioè in linea retta, verso la sfera dell'elemento che in esso era prevalente: la pietra, formata quasi esclusivamente dall'elemento terra, cadeva rapidamente verso il centro della Terra; il fumo, appesantito da fuliggine e umidità, saliva lentamente lungo la verticale, verso la sfera del fuoco.
Abbiamo visto così come è fatto e di che cosa è fatto il mondo per Aristotele. E poiché i quattro elementi che formano tutte le cose nei mondo sublunare, a differenza di quelli di Empedocle, possono trasmutarsi l'uno nell'altro, ci troviamo di fronte a due realtà profondamente distinte: la Terra e i Cieli, formati questi ultimi esclusivamente e uniformemente di etere, la quinta essenza, una sostanza che si esita a considerare vera e propria materia e che ubbidisce a leggi che noi non conosciamo e che sono certamente diverse da quelle cui sono soggetti i quattro elementi. Un commentatore medievale, per far meglio comprendere come i cieli siano uniformemente "pieni" di etere, diceva che gli astri, il Sole e la Luna sono incastonati nei loro cieli "come nodi nel legno". Abbiamo detto e ripetiamo che Aristotele non era certo un astronomo. Tuttavia egli deve dedicare ai cieli e ai loro movimenti estrema attenzione, perché vuole spiegare l'origine di questi ultimi e dimostrare che tutte le rotazioni dipendono da un unico motore esterno, cioè da un primo motore immobile (per Aristotele motore è sinonimo di forza). Pertanto il sistema delle sfere omocentriche si adattava benissimo, con qualche modifica, al suo schema. Tanto più che dopo Eudosso, che aveva ipotizzato 26 sfere (quattro per ognuno dei cinque pianeti e tre per ciascuno dei due luminari), esso era stato ulteriormente perfezionato da Cailippo di Cizico (370-300 a.C.), che aveva aggiunto una sfera ai sistemi di Mercurio, Venere e Marte, e ben due sfere ai sistemi della Luna e del Sole. Egli certamente teneva conto di più lunghe e accurate osservazioni, e in particolare poteva spiegare il moto non uniforme della Luna, durante il mese, e del Sole durante l'anno; in altre parole, riusciva a "tener conto dei moto che noi chiamiamo ellittico". Questo, naturalmente, a costo di una maggior complicazione; infatti le sfere omocentriche passavano da 26 a 33. Esse tuttavia riuscivano a spiegare e a prevedere così bene la posizione degli astri, che ormai si poteva supporre che il mondo celeste fosse fatto veramente così. E Aristotele compì l'ultimo passo per trasformare il modello matematico di Eudosso e della sua scuola in un modello fisico, in una sorta di planetario, a prezzo naturalmente di una ulteriore complicazione, resa necessaria, questa volta, non per riprodurre con più precisione i fenomeni osservati, ma esclusivamente per dimostrare il suo assunto filosofico, e cioè che il moto si trasmette, per frizione, dai primo motore immobile, al di fuori del firmamento, ma, ovviamente, non al di fuori del mondo, che è finito, di sfera in sfera, fino all'ultima, quella cioè in cui è incastonata la Luna. A tal fine Aristotele deve collegare ogni sistema di sfere a quello che io precede e a quello che io segue, e le nuove sfere "di collegamento" ammontano a 22, portando così il totale a 55. lì sistema delle sfere omocentriche diventa così sempre meno pratico per l'astronomo e per il matematico, specialmente quando l'astrologia viene a porre l'esigenza di calcoli rapidi e quanto più possibile precisi. Ma soddisferà in pieno il filosofo, almeno fino ai tempi di Copernico.
Aristotele (IV secolo a.C.). Particolare della "Scuola di Atene" di Raffaello.
[Bibliografia: Enciclopedia: "Astronomia, alla scoperta del cielo", Curcio. Pagg: 1758-1767]
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