mercoledì 9 luglio 2008

L'astronomia della Grecia classica

La Jonia è un breve tratto della costa occidentale dell'Asia Minore, premuta, nel retroterra, da popolazioni evolute, ma non greche, e fronteggiate da alcune grosse isole, che ne rappresentavano forse la parte più ricca. Le città più celebri di questo frastagliato litorale sono, da nord a sud, Focea, Smirne, Clazòmene (leggermente all'interno), Efeso e Mileto; le isole più importanti, Chio e Samo. Gli estremi della costa jonica distano fra loro, in linea d'aria, meno di 150 chilometri; Sardi, la capitale di Creso, re della Lidia, si trova a meno di ottanta chilometri a est di Smirne e del mare.
Ebbene, in questo ristrettissimo ambito, nel corso di pochi secoli, sono fioriti avvenimenti eccezionali per la storia della cultura e per l'evoluzione della civiltà. Fra l'isola di Chio e la città di Smirne, due luoghi che, insieme ad altri, si contendono il vanto di aver dato i natali a Omero, si è costituita la tradizione orale dell'"Odissea", nel IX secolo a.C., e dell'" Iliade " nell'VIII. In una città della costa, quasi certamente ad Efeso, intorno al 625 a.C., cioè più o meno all'epoca della nascita di Talete, si sono cominciate a battere le prime monete metalliche, un'invenzione squisitamente greca, che si sarebbe rapidamente diffusa nel Mediterraneo per offerte votive nei templi e per gli scambi di metalli, di sale, di grano, di schiavi e di oggetti pregiati; e in seguito avrebbe conquistato tutti i principali mercati, specialmente come conseguenza delle conquiste di Alessandro Magno, avvenute nei dodici anni che vanno dal 335 al 323 a.C.
Ma per quanto ci concerne, la vicenda di gran lunga più importante si è svolta, o, almeno, si è iniziata a Mileto e nella vicina Samo, nel VI sec. a.C.; di questa vicenda furono protagonisti uomini di cultura che la civiltà non aveva ancora conosciuto e che in principio furono annoverati fra i saggi o sapienti, e poi, con Pitagora, furono chiamati filosofi, cioè amici della saggezza. Si tratta infatti degli iniziatori della filosofia, anch'essa un dono tutto greco alla nostra civiltà.

 

Il razionalismo greco

Il primo oggetto di studio della filosofia greca fu la natura; e i filosofi naturali, la cui serie si inizia a Mileto con Talete e prosegue nella stessa città con Anassimandro e Anassimene, stabiliscono una delle più grandi rivoluzioni di pensiero conosciute dall'umanità. Lo scopo della loro ricerca, infatti, ambizioso e audace allo stesso tempo, era quello di spiegare il fenomeno naturale, anziché col mythos, come avveniva in Omero e in Esiodo, col logos, cioè col ragionamento. Ad esempio, non si indicherà più in Zeus l'origine della pioggia, dei fulmini e dei tuoni, e in esseri soprannaturali la causa dei cicli vegetativi, delle cascate dei torrenti, del flusso dei fiumi, dell'umore del mare, e così via. Per il loro difficile intento, i filosofi di Mileto mettono a profitto le esperienze fatte nei loro viaggi e le notizie che giungono al loro importante emporio, allora su di un'ampia rada, poi colmata dalle alluvioni del Menandro. Tali esperienze e tali notizie vengono vagliate da un acume in cui vi sono fermenti nuovi, e comincia così un'avventura dello spirito, che non era stata ancora tentata, e che, con i mezzi limitati di conoscenza di cui si disponeva, ovviamente non poteva dare vistosi successi. Tuttavia, per il divenire della nostra cultura, è stata fondamentale: la filosofia naturale greca, infatti, è il primo manifestarsi della scienza, come ricerca di una spiegazione razionale.

Talete
Talete (VI secolo a.C.).

 

Il cielo, l'oceano e la terra

Che Talete osservasse il cielo può essere testimoniato da un episodio riportato insistentemente da quanti, nell'antichità, hanno parlato di lui. Rientrando a casa, una sera, anziché dove metteva i piedi, egli guardava il cielo che cominciava a riempirsi di stelle, tanto che, ad un certo punto, cadde in un pozzo, e la serva che lo seguiva a rispettosa distanza sarebbe esplosa in una sonora risata. Quel trabocchetto doveva essere, quasi certamente, una pozza infossata per abbeverare il bestiame o attingere acqua; nulla di tragico, quindi, ma solo un bagno inopinato, una sgradevole avventura, che destava ilarità perché sembrava contraddire la grande reputazione che godeva quel personaggio. E di pensatori e scienziati bersagliati da una ironia, che spesso si attribuiva alle persone più semplici, ma che in realtà era raccolta e propalata da quanti si rifiutavano alla profonda innovazione di cui tali personaggi si facevano portatori, è piena la storia della scienza e non solo della scienza. E non sempre, disgraziatamente, ci si limitava a far semplicemente dell'ironia!
Talete è indubbiamente uno dei più grandi innovatori nella storia del pensiero, ed è giusto che sia il primo dei protagonisti che passeremo in rassegna. Non mancano, anche fra gli autori moderni, quelli che vorrebbero ridimensionarne la importanza, perché, oltre ad aver dato i suoi insegnamenti solo oralmente, lo trovano ancora troppo legato alla tradizione (è un po' quanto si rimprovera o si è rimproverato a Copernico). É noto che Talete considerò origine o radice di tutte le cose l'acqua, dalla quale tutto deriva e alla quale tutto ritorna; e la Terra è un discoide che galleggia sulle acque dell'oceano, trattenute dalla volta sferica e materiale del cielo, che si chiude al disotto del complesso acqua-terra e ruota intorno ad esso ogni giorno, trascinando le stelle, e con qualche slittamento, i luminari e i pianeti. E il primo tentativo di una cosmologia razionale; ma si è voluto vedervi la suggestione della "paternità" dell'oceano e della rappresentazione che Omero fa della Terra nello scudo di Achille. Se si guarda con più attenzione, ci si accorge che Talete è, in effetti, il primo che ha abbandonato il mito, e ha imboccato quella che sarà una delle strade maestre della scienza: ricondurre la molteplicità dei fenomeni ad uno o a pochi principi. La scelta dell'acqua aveva due giustificazioni razionali e naturalistiche. L'acqua è elemento indispensabile alla vita (ogni seme, per compiere il suo ciclo, ha bisogno di umidità); inoltre l'acqua era l'unico "elemento" che si conoscesse nei tre stati della materia: solido, liquido e gassoso, e che, a certe condizioni, potesse passare reversibilmente dall'uno all'altro di essi. La parte più nuova e feconda, nell'insegnamento di Talete, è il fatto che egli considera che l'elemento primordiale, pur trasformandosi in mille modi, si conserva. Siamo di fronte alla prima legge della fisica, la legge di conservazione della materia (oggi si direbbe della massa), che nella seconda metà del XVIII secolo Lavoisier enuncerà dicendo che in natura nulla si crea e nulla si distrugge. Inoltre va ricordato che Talete accolse dall'Oriente e dall'Egitto solo le nozioni che gli sembrano suscettibili di una spiegazione razionale. Vi furono quindi importanti esclusioni, alcune positive, altre negative. Egli ad esempio non accolse l'astrologia dei Caldei, che ai suoi tempi era al suo massimo splendore; però non ritenne neppure di dover accogliere l'idea di una Terra rotonda, quasi certamente già affermatasi anche in Egitto. E questo perché, pensando che il Sole fosse ad una distanza paragonabile a quelle terrestri e quindi avesse dimensioni molto più piccole di quelle della Terra, nel suo moto regolare intorno ad una Terra sferica non si sarebbero mai avute giornate uguali alle notti o addirittura più lunghe, come accade in estate.
Coloro che a Mileto continuarono l'insegnamento di Talete (anche con opere scritte, che però non ci sono pervenute che in brevi citazioni, spesso tarde), e cioè Anassimandro prima e Anassimène poi, si mantennero fedeli ad un unico, anche se diverso, principio di tutte le cose, e cioè individuarono la sostanza elementare nell'indefinito il primo, e nell'aria il secondo. Quanto alla loro cosmologia, invece, si registra una evoluzione più notevole. Per Anassimandro la Terra è un cilindro in equilibrio indifferente nello spazio. Ci sono state tramandate anche le proporzioni che egli gli attribuiva: "un cilindro la cui altezza è un terzo della sua larghezza". Questa notizia però, se non deve essere diversamente interpretata, sembra in contrasto con un'altra tradizione, che attribuisce ad Anassimandro il merito di aver insegnato ai Greci l'uso dello gnomone, già noto in Egitto e in Oriente, e delle indicazioni della sua ombra, che varia con la latitudine. Anassimandro è il primo dei filosofi greci ad affidare ad uno scritto, forse ad un poema, i suoi molti insegnamenti e le sue notevoli intuizioni. Fra l'altro sembra che attribuisse al suo unico principio, l'àpeiron, che abbiamo tradotto indefinito, ma che può significare anche illimitato, l'origine "di tutti gli innumerevoli mondi". E questo un concetto poco frequente nel pensiero greco, e che verrà rifiutato da Aristotele.
Anassimène, riferendosi come principio all'aria, sembra ritornare ad una razionalità più aderente alle sensazioni, più realistica, più accessibile. Tuttavia non mancano gli spunti per un ulteriore approfondimento della natura e del mondo che ci circonda. L'aria è allo stesso tempo vapore e spirito, e le varie sostanze si distinguono per la sua maggiore o minore concentrazione (massima nei corpi più pesanti) o per la sua rarefazione (che è al suo limite nel fuoco). Per la Terra, egli ripropone una forma piatta, un disco sottile, cioè, sostenuto e trattenuto dall'aria.

Univsecanass
L'Universo secondo Anassimandro (VI secolo a.C.).

 

La sfericità della Terra

Coi filosofi successivi comincia tuttavia a farsi strada l'idea di una Terra sferica, già da tempo recepita, come si è detto, in Egitto, e, forse ancor prima, in Mesopotamia. Pitagora, che viaggiò a lungo, e che fu attentissimo alle simmetrie che si verificano in natura, tanto da indicare l'armonia come la legge fondamentale del cosmo, cioè di una "bellezza ben ordinata" (i latini parleranno analogamente di mundus), Pitagora dunque, intorno al 500 a.C., forse fu il primo ad insegnare ai Greci che la Terra è rotonda. Una moneta di età imperiale, coniata a Samo, ci mostra una statua di Pitagora (PYTAGORES SAMION in caratteri greci) certamente molto più antica della moneta che la riproduce, raffigurante il filosofo seduto che, a quanto sembra, con un compasso prende delle misure su di un globo posto davanti a lui, una figurazione che ricorre in altri antichi cimeli, ripresa anche da artisti relativamente recenti. Quella statua, dedicata a Pitagora dalla sua isola, è certamente ispirata ad una vecchia e non inverosimile tradizione. E la consapevolezza che la Terra è sferica è una tappa fondamentale, non solo per l'astronomia, ma per la civiltà e la cultura nel loro più vasto significato. E non si tratta di una semplice intuizione, che non avrebbe affatto appagato il razionalismo greco, pur sensibile alle ragioni di armonia e dì simmetria dei pitagorici; o, meglio, non si ferma ad essa. Ben presto cominciarono prove e verifiche. Parmenide di Elea nella Magna Grecia, cioè di quella stessa frontiera occidentale e floridissima del mondo greco nella quale Pitagora era emigrato dalla Jonia, parla delle fasce climatiche e dei cieli concentrici alla Terra. L'ombra dello gnomone acquista anche per i Greci tutta la sua utilità: a mezzogiorno dello stesso giorno essa è più breve verso l'equatore, più lunga verso il polo. Inoltre, il fatto che le stelle presso il polo celeste (quelle che descrivono nella notte i cerchi più piccoli), per chi viaggia verso nord, sono sempre più alte sull'orizzonte è un'ulteriore prova che la Terra è rotonda. Fra l'altro i marinai si faranno sempre più arditi navigando nell'oceano, un mare immenso, nel quale però temono sempre meno le paurose discontinuità.
Ormai la Terra è considerata un corpo celeste, e un altro pitagorico, Filolao, alla fine dei V secolo, cioè verso il 400 a.C., ipotizza un "fuoco centrale", intorno al quale la nostra Terra ruoterebbe come il Sole e gli altri astri, senza mai vederlo, perché continuamente "schermato " da una "antiterra", in un complicato sistema del mondo, non facilmente rappresentabile.

Pitagora
Pitagora in un'incisione riproducente un'antica moneta.

 

Il ruolo di Atene

La filosofia è fuor d'ogni dubbio uno dei tanti doni che l'umanità ha avuto dai Greci. Ma, come abbiamo visto, essa è fiorita, nella sua prima forma di filosofia della natura, ai margini di quella civiltà in Asia Minore e nell'italia meridionale, dove forse era più libera e più facilmente raggiunta da fecondi stimoli di quei mondo che i Greci più rigidi consideravano barbaro. Chi ha portato la filosofia nel cuore del mondo greco, ad Atene, è di nuovo un grande filosofo jonico, Anassagora di Clazòmene. Egli era già ad Atene da una quindicina d'anni quando Pericle, nel 454, vi faceva trasportare il tesoro della Lega fino a quei momento conservato nell'isola di Delo, e faceva della sua città, che nei 488 aveva vinto da sola i Persiani, la metropoli più splendida e più potente del momento. Fu una breve stagione, che tuttavia lasciò segni incancellabili, anche nella storia del pensiero.
Amica, confidente e forse segreta ispiratrice di Pericle era Aspasia, anch'essa ionica, anzi proprio di Mileto. Forse a metà strada fra la gran dama e l'avventuriera, ella raccolse intorno a sé una sorta di circolo di intellettuali e di artisti, quasi un salotto "ante litteram" dell'epoca dei lumi o del periodo neoclassico. Coloro che si trovavano nella ricca dimora di Aspasia, il cui nome e il cui ricordo esercitarono una forte suggestione anche su Leopardi, erano personaggi come il giovane Ippocrate, destinato a diventare uno dei medici più famosi, il matematico Metone, Tucidide, che sarà testimone della tragica fine di quello splendido periodo, e tanti altri, fra cui Fidia. Ma, di loro, Anassagora era il numero uno, tenuto in grande considerazione da Pericle, non solo come saggio teoreta, ma soprattutto come valido consigliere in materia di politica e anche nei campo delle arti, intese queste ultime nel senso più lato di tale termine.
Anassagora è di fondamentale importanza, per la storia dell'astronomia, perché, senza reticenze e con estrema chiarezza, estese la spiegazione razionale e naturalistica non solo ai fenomeni atmosferici, ma anche a quelli più propriamente celesti, trattati, forse per la prima volta, alla stregua di quelli terrestri.
Come prima cosa degna di nota, occorre ricordare che Anassagora propone l'esistenza di una materia estremamente rarefatta, l'etere, che occupa ogni luogo, anche sulla Terra, e che, negli spazi, crea un vortice che trascina i corpi celesti. Tralasciando la sua teoria dei semi, ispirata ai fenomeni di crescita degli organismi viventi che sembrano "trasformare ciò di cui si nutrono", veniamo alle sue concezioni in campo astronomico, che dovettero non poco stupire i suoi contemporanei. Egli infatti affermò che il Sole e le stelle altro non sono che pietre infuocate; e per dare un'idea della loro grandezza e della loro distanza, disse che il Sole era più grande del Peloponneso! E, come ricorda Plutarco fra il primo e il secondo secolo dell’era volgare, Anassagora additava, a riprova della sua teoria, una grande meteorite, che tutti veneravano perché "discesa dal cielo", ed aggiungeva inoltre che essa altro non era che una "pietra" staccatasi da un corpo celeste, nei quale si era verificato un cataclisma, come ad esempio una frana o un terremoto, e che in seguito a ciò era "caduta" sulla Terra. Tanta libertà di pensiero non mancò di irritare e di sollevare l'opinione pubblica contro di lui e i suoi amici. Dopo le insinuazioni e le critiche pesanti della commedia, che prese particolarmente di mira Aspasia, cominciarono i processi, e Anassagora è probabilmente il primo filosofo che viene incriminato e arrestato per empietà. Solo i buoni uffici di Pericle riuscirono a evitargli il carcere. Ma Anassagora dovette prendere la via dell'esilio e si recò a Làmpsaco, vecchio stanziamento di coloni di Mileto sulla costa asiatica dell'Ellesponto, cioè dei Dardanelii, di fronte a Gallipoli. Morì fra il 428 e il 427: in quello stesso biennio ad Atene, o comunque da un'illustre famiglia ateniese, nasceva Platone.

 

Il primo astronomo: Eudosso

Prima che con i Sofisti, Socrate e Platone, la ricerca filosofica si sposti dalla natura all'uomo, secondo il fondamentale precetto attribuito a Socrate, "conosci te stesso", la filosofia naturale greca raggiunge il suo apice nell'atomismo di Democrito, di una generazione più giovane di Anassagora, del quale Democrito certamente conosceva gli insegnamenti. il suo principale ispiratore, però, fu Leucippo, una figura che sfuma nella leggenda e del quale si sa di certo quasi soltanto che era di Mileto. A base della sua teoria, Democrito pone gli atomi, di per sé impercettibili, i quali, in continuo movimento si combinano a caso nel vuoto. Gli atomi sono infiniti e di infinite forme: il nostro mondo, pertanto, è infinito, ed è uno degli infiniti mondi. Concetti nuovi, per il pensiero classico e particolarmente per quello greco. Aristotele li rifiuterà come assurdi; eppure, ripresi da Epicuro e ben accolti a Roma non solo da Lucrezio, ma anche da Vitruvio, Virgilio e Orazio, benché avversati dalle più importanti scuole filosofiche e dalle religioni monoteistiche, rimarranno nel substrato della cultura occidentale e rappresenteranno uno dei fermenti del ricostituirsi della scienza nei Rinascimento e nell'età barocca. Quanto a Platone, che trasporta la realtà vera nel mondo ultraterreno delle idee, sembrerebbe responsabile di una svolta antiscientifica dei pensiero antico. Invece non è così, specialmente per quanto concerne l'astronomia. Anzitutto egli diede grande importanza all'insegnamento della geometria: si dice che sulla porta dell'Accademia, la sua scuola d'élite, avesse fatto scrivere: "Non entri chi non è portato alla geometria". E il privilegiare tale materia è la prima condizione perché si sviluppi un'astronomia che non sia semplicemente un'empirica raccolta di dati e di date. Per una simmetria e un’armonia che si addicono alla perfezione dei cicli, ma anche per spiegare la rigorosa periodicità dei moti degli astri, Platone ipotizzava che essi fossero animati esclusivamente da moti circolari e uniformi, un concetto che vivrà a lungo. Egli immaginava un universo monocentrico, con la rivoluzione degli astri e delle stelle intorno alla Terra sferica, ma immobile; la successione dei corpi celesti che facevano corona alla Terra, dopo la Luna, era: Sole, Mercurio e Venere, mentre per i pianeti esterni essa coincideva con quella tradizionalmente attribuita ai Pitagorici e quindi ripresa e confermata da Eudosso, da Aristotele e infine da Tolomeo.
I Platonici, invece, rimasero di solito fedeli a quest'ordine, mai accolto dagli astronomi. Solo un neoplatonico, Porfirio, allievo di Plotino e attivo a Roma fra il terzo e il quarto secolo della nostra era, incauto precursore di Keplero, per trovare un'armonia musicale nella successione dei periodi dei pianeti, invertì il posto di Venere con quello di Mercurio, che veniva a trovarsi così al quarto posto partendo dalla Terra, collocato fra Venere e Marte.
Platone sapeva molto bene che, a differenza delle stelle fisse, i due luminari si spostavano da occidente a oriente, percorrendo a ritroso le costellazioni della fascia dello zodiaco, in modo tutt'altro che uniforme; e i pianeti, nella loro analoga risalita dello zodiaco, non seguivano certo orbite circolari. Tuttavia Platone era convinto che queste apparenti irregolarità, e in particolare il fatto che periodicamente i pianeti diventavano stazionari o retrogradi, derivasse dalla combinazione di vari moti, tutti, però, circolari e uniformi. in altre parole, egli pensava che, con l'aiuto della geometria, si potessero stabilire le orbite dei luminari e dei pianeti come risultanti di più moti circolari e uniformi. Sfidò allora i suoi allievi (e anche se in questa tradizione giuoca un certo ruolo la leggenda, una base storica è certa) a risolvere tale problema geometricamente; cosa che riuscì ad uno solo, Eudosso.
Si trattava di un brillante, ma inusuale frequentatore dell'Accademia. Eudosso infatti era uno straniero, un dorico di Cnido, città famosa per il culto di Venere-Afrodite, in cima ad una stretta penisola che si allunga nell'Egeo fra Rodi e Coo (dal capoluogo di quest'ultima dista in linea d'aria una ventina di chilometri); quindi una città sulla costa frastagliata dell'Asia Minore, poco a sud della Jonia. Per di più Eudosso era di umile origine, e poté andare a frequentare la costosa scuola di Atene perché i suoi concittadini, accortisi dei talento di questo ragazzo, raccolsero a tal fine una colletta, quasi una borsa di studio dell'inizio dei quarto secolo avanti Cristo! Sembra che ad iniziare Eudosso alla geometria, alla teoria dei numeri e alla musica sia stato il grande Archita, pitagorico di Taranto, e che maestri non meno eminenti egli abbia avuto per la medicina e per il diritto: fra l'altro si ha ragione di ritenere che egli abbia dato o corretto un corpo di leggi per la sua città natale. Quindi una personalità cospicua, la quale, come gli altri filosofi dei tempo, coltiva tutti i rami dello scibile. Ma è uno dei primi a dare la maggior importanza alle scienze, e soprattutto all'astronomia, partendo da una solidissima base geometrica. In epoca ellenistica, sia Euclide per i suoi "Elementi", sia Apollonio per le sue "Coniche" partiranno dagli scritti di Eùdosso. Quanto al suo soggiorno in Egitto, egli deve averne riportato una notevole esperienza per l'osservazione del cielo.
Ritornato in patria, di qui si spostò in un secondo tempo più a nord, e fondò una scuola e un osservatorio (quasi certamente il primo del mondo greco) a Cizico, vecchia colonia di Mileto su di un promontorio della costa asiatica della Propontide, cioè del Mar di Marmara. Ed è appunto per la latitudine di Cizico e per l'epoca in cui osservava Eudosso che, come dice Arato nei suo poema sulla descrizione del ciclo, scritto nella prima metà dei III sec. a.C., ma fedele interpretazione di un testo di Eudosso, "la testa del Drago, nella sua rotazione intorno al polo, sfiora l'orizzonte".
La soluzione che Eudosso diede al problema posto da Platone e che portò alla formulazione del primo organico e razionale "sistema del mondo", non è il solo contributo che egli diede all'astronomia, ma indubbiamente è quello che lo ha reso celebre. Se il moto del Sole e della Luna, da occidente a oriente, ha solo delle variazioni in velocità e latitudine, quello dei pianeti è, come ben sappiamo, molto più irregolare. Se il piano dell'orbita del pianeta coincidesse con quello dell’eclittica noi vedremmo ogni anno il pianeta arrestarsi e percorrere un tratto della sua orbita a ritroso, tanto più breve, quanto più il pianeta è lento, e quindi quanto più esso è presumibilmente lontano. Poiché il piano in cui il pianeta si muove non è mai perfettamente coincidente con quello dell'eclittica, vediamo che esso percorre una specie di esse schiacciata o una boccola, una curva cioè che Eudosso chiamò "ippopede", cioè percorso di un cavallo "impastoiato" (oggi diremmo una lemniscata sferica). Eudosso immaginò che ognuno dei cinque pianeti fosse mosso da quattro sfere concentriche alla Terra e imperniate l'una nell'altra. Per i due luminari le sfere si limitavano a tre.


Eudossoteor

Si tratta di uno schema a tre dimensioni che non è facile ripetere a parole o con un disegno in piano. Ad ogni modo tenteremo. Ogni pianeta era solidale alla sfera più interna, in corrispondenza dei suo equatore, sfera che aveva una certa velocità, e ruotava intorno ad un asse che con una certa inclinazione era imperniato nella terza sfera. Questa ruotava in senso inverso con la stessa velocità, ma con una diversa inclinazione, imperniata a sua volta nella seconda sfera, che era quella dei ciclo annuo delle stagioni; e così si giungeva alla prima, più esterna, che era responsabile del moto diurno e quindi compiva un giro ogni giorno. La composizione di questi moti, tutti uniformi e circolari, concentrici alla Terra, dava luogo al movimento apparentemente irregolare che noi osserviamo in ciascun pianeta. Le quattro sfere servivano a render conto del moto di rotazione e di quello di rivoluzione della Terra ritenuta immobile (rispettivamente prima e seconda sfera), nonché dei moto orbitale e dell'inclinazione dell'orbita del pianeta (terza e quarta sfera). Per i due luminari le sfere erano tre. Per la Luna le tre sfere, cominciando dalla più esterna, rappresentavano la prima, al solito, il moto diurno, la seconda il moto mensile della Luna e la terza la retrogradazione dei nodi, cioè delle intersezioni con l'eclittica. Per il Sole, a rigore, sarebbero bastate due sole sfere; ma Eudosso volle tener conto di un ipotetico spostamento del Sole in latitudine, cioè rispetto all'eclittica.
Questo sistema, a differenza di quanto avverrà in quello di Tolomeo, presuppone che le distanze dalla Terra di ogni pianeta, del Sole e della Luna rimangano costanti, in contrasto con molte evidenti osservazioni, che certamente Eudosso non ignorava. Tuttavia, egli aveva dato in un modo sufficientemente preciso, anche se necessariamente complicato, la spiegazione geometrica della velocità dei pianeti e del loro corso, come gli era stato richiesto. Il suo non era un sistema fisico, una specie di modello materiale quale può essere un planetario; ma semplicemente un modello geometrico, uno strumento di calcolo. E chi lo proponeva non si preoccupava di come si trasmettesse il moto alle sfere, tanto che ogni sistema era indipendente da quello che Io precedeva e da quello che lo seguiva. Oggi il sistema delle sfere omocentriche, o, alla latina, concentriche di Eudosso richiama e affatica tutta la nostra attenzione per l'importanza che hanno avuto in seguito i sistemi del mondo per Aristotele, che separò la fisica della Terra da quella dei cieli, per gli astrologi, che dovevano determinare la posizione dei pianeti nelle costellazioni dello zodiaco per i loro oroscopi, infine per la nuova scienza, da Copernico a Newton, la quale cercò nei movimenti celesti la verifica dei fondamentali principi della meccanica, riunificando sotto le stesse leggi la fisica del cielo e quella della Terra.
Ai tempi di Eudosso, il problema si può dire che interessasse soltanto Platone e la cerchia dei suoi allievi. Platone, a differenza di quanto è stato più volte affermato, non accetta affatto l'astrologia caldea; segna piuttosto un ritorno o una conferma della religione degli astri. I pianeti vaganti fra le stelle erano per lui altrettante divinità, e per questo andavano seguiti e venerati. Quanto al preteso consenso di Platone alla falsa scienza che studia gli influssi celesti sui destino degli uomini, tutto sommato è probabilmente vero il contrario: l'astrologia, diffondendosi in Grecia, si trasformerà profondamente, e questo anche per effetto dei pensiero di Platone.
La fama e l'importanza di Eudosso fra i suoi contemporanei, e anche fra la maggior parte dei curiosi della natura delle generazioni successive, è quindi affidata alle molte altre sue opere, cui si è in parte accennato. In astronomia descrittiva e in meteorologia il magistero di Eudosso è fondamentale. In una sua opera nota come "I fenomeni" egli dava un'accurata descrizione del cielo stellato e insegnava a riconoscere tutte le costellazioni visibili alle nostre latitudini e a disegnare idealmente fra di esse i principali cerchi di riferimento della volta stellata, una guida quindi particolarmente utile ai naviganti e a chi doveva orientarsi di notte nei deserto. In un'altra sua opera, nota come "I pronostici" Eudosso insegnava al pastore e al contadino come interpretare i variabili segni dati dal vento, dalle nuvole e da tutti quegli eventi che Aristotele chiamerà "meteore", per trarre verosimili previsioni sui tempo che farà. Intorno ai 270 a.C., cioè circa un secolo dopo, il poeta Arato, per incarico del re di Macedonia, Antigono Gònata, metterà in versi queste due opere che Eudosso aveva scritto in prosa, una prosa che doveva essere divenuta ostica e antiquata. Arato arricchì la descrizione del cielo con immagini poetiche, ma rimase fedelissimo all'originale. Si tratta di quello che si usa definire un poema didascalico; e infatti esso, facile per i suoi ritmi da impararsi a memoria, servì per generazioni, fino ad un passato relativamente recente, per il primo insegnamento dell'astronomia e della meteorologia, senza il minimo accenno al moto dei pianeti, e quindi in una posizione assolutamente neutrale nei confronti dell'astrologia. Contro di esso, intorno alla metà dei Il sec. a.C., si levò severa la voce del grande Ipparco (circa 180-125 a.C.), che aspirava al titolo di principe degli astronomi. La sua, naturalmente, era una critica indiretta alla descrizione del cielo che aveva fatto Eudosso più di tre secoli prima. In tale descrizione Eudosso faceva frequenti riferimenti agli "orti" e agli "occasi" simultanei; cioè indicava certe stelle che si levavano a oriente nello stesso momento in cui altre tramontavano a occidente. Ipparco fece grande clamore, mostrando che queste coincidenze non erano rigorose. Non si era accorto, proprio lui che, forse per primo, aveva scoperto la precessione degli equinozi, che questo importante fenomeno celeste influisce anche sulla concomitanza del sorgere e del tramontare di certe coppie di stelle. Quindi, in effetti, la descrizione di Eudosso non era affatto sbagliata: doveva soltanto essere aggiornata.

Platone
Platone (V secolo a.C.): Parigi, Museo del Louvre.

 

Aristotele

Si può dire che il grande filosofo nato nel 384 a Stagira, un piccolo centro prossimo alla costa dell'Egeo settentrionale, poco distante dalla Macedonia, sia stato il primo serio cultore di scienze naturali e di scienze umane, con interessi che spaziavano dalla classificazione delle piante e degli animali, alle leggi costituzionali delle città-stato della Grecia. I numerosi scritti, che ci sono rimasti, vanno da quelli di "fisica", la disciplina che tratta della natura e in particolare delle varie specie di moti o mutamenti, a quelli di psicologia, questi ultimi riconosciuti praticamente insuperati fino all'Ottocento. Ma certo non si può dire che Aristotele, alieno alla geometria e nemico dei numeri, sia stato un astronomo. Eppure, la sua cosmologia, elemento base del suo sistema filosofico, ha incredibilmente influenzato e condizionato l'astronomia per circa mille e ottocento anni! Per Aristotele il mondo era pregiudizialmente pieno e finito, e si divideva nettamente in due "nature": quella dei cieli sferici e concentrici, una natura perfetta e immutabile, che era costituita esclusivamente di etere, la quinta essenza che era tutta nei cieli; e quella dei mondo sublunare o delle sfere elementari, nelle quali l'ordine era solamente una tendenza, un fine sempre perseguito, ma mai raggiunto. Il mondo sublunare era quindi il regno dell'imperfetto e del mutevole, formato anch'esso da sfere concentriche, quattro per la precisione, ognuna luogo "naturale" dei quattro elementi dei quali sono composte tutte le cose di cui abbiamo conoscenza diretta. Partendo dal centro, si aveva la sfera della Terra, fasciata da quella dell'acqua, cui seguiva quella dell'aria e infine, dopo questa, c'era la sfera dei fuoco. Terra e acqua erano elementi pesanti in assoluto; aria e fuoco leggeri in assoluto. Ogni corpo tendeva per la via più breve, cioè in linea retta, verso la sfera dell'elemento che in esso era prevalente: la pietra, formata quasi esclusivamente dall'elemento terra, cadeva rapidamente verso il centro della Terra; il fumo, appesantito da fuliggine e umidità, saliva lentamente lungo la verticale, verso la sfera del fuoco.
Abbiamo visto così come è fatto e di che cosa è fatto il mondo per Aristotele. E poiché i quattro elementi che formano tutte le cose nei mondo sublunare, a differenza di quelli di Empedocle, possono trasmutarsi l'uno nell'altro, ci troviamo di fronte a due realtà profondamente distinte: la Terra e i Cieli, formati questi ultimi esclusivamente e uniformemente di etere, la quinta essenza, una sostanza che si esita a considerare vera e propria materia e che ubbidisce a leggi che noi non conosciamo e che sono certamente diverse da quelle cui sono soggetti i quattro elementi. Un commentatore medievale, per far meglio comprendere come i cieli siano uniformemente "pieni" di etere, diceva che gli astri, il Sole e la Luna sono incastonati nei loro cieli "come nodi nel legno". Abbiamo detto e ripetiamo che Aristotele non era certo un astronomo. Tuttavia egli deve dedicare ai cieli e ai loro movimenti estrema attenzione, perché vuole spiegare l'origine di questi ultimi e dimostrare che tutte le rotazioni dipendono da un unico motore esterno, cioè da un primo motore immobile (per Aristotele motore è sinonimo di forza). Pertanto il sistema delle sfere omocentriche si adattava benissimo, con qualche modifica, al suo schema. Tanto più che dopo Eudosso, che aveva ipotizzato 26 sfere (quattro per ognuno dei cinque pianeti e tre per ciascuno dei due luminari), esso era stato ulteriormente perfezionato da Cailippo di Cizico (370-300 a.C.), che aveva aggiunto una sfera ai sistemi di Mercurio, Venere e Marte, e ben due sfere ai sistemi della Luna e del Sole. Egli certamente teneva conto di più lunghe e accurate osservazioni, e in particolare poteva spiegare il moto non uniforme della Luna, durante il mese, e del Sole durante l'anno; in altre parole, riusciva a "tener conto dei moto che noi chiamiamo ellittico". Questo, naturalmente, a costo di una maggior complicazione; infatti le sfere omocentriche passavano da 26 a 33. Esse tuttavia riuscivano a spiegare e a prevedere così bene la posizione degli astri, che ormai si poteva supporre che il mondo celeste fosse fatto veramente così. E Aristotele compì l'ultimo passo per trasformare il modello matematico di Eudosso e della sua scuola in un modello fisico, in una sorta di planetario, a prezzo naturalmente di una ulteriore complicazione, resa necessaria, questa volta, non per riprodurre con più precisione i fenomeni osservati, ma esclusivamente per dimostrare il suo assunto filosofico, e cioè che il moto si trasmette, per frizione, dai primo motore immobile, al di fuori del firmamento, ma, ovviamente, non al di fuori del mondo, che è finito, di sfera in sfera, fino all'ultima, quella cioè in cui è incastonata la Luna. A tal fine Aristotele deve collegare ogni sistema di sfere a quello che io precede e a quello che io segue, e le nuove sfere "di collegamento" ammontano a 22, portando così il totale a 55. lì sistema delle sfere omocentriche diventa così sempre meno pratico per l'astronomo e per il matematico, specialmente quando l'astrologia viene a porre l'esigenza di calcoli rapidi e quanto più possibile precisi. Ma soddisferà in pieno il filosofo, almeno fino ai tempi di Copernico.

Aristotele
Aristotele (IV secolo a.C.). Particolare della "Scuola di Atene" di Raffaello.

[Bibliografia: Enciclopedia: "Astronomia, alla scoperta del cielo", Curcio. Pagg: 1758-1767]

 

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Gli astronomi scoprono che anche una delle lune di Saturno ha gli anelli!

Fino a poco più di 300 anni fa si credeva che Saturno fosse l'unico pianeta del Sistema Solare dotato di un sistema di anelli. A partire dal 1989, grazie a osservazioni da terra e alle sonde Voyager 1 e 2, si è scoperto che gli anelli sono presenti anche in altri tre pianeti giganti gassosi: Giove, Urano e Nettuno.

Adesso la sonda Cassini ha trovato un sistema di anelli anche attorno alla seconda più grande luna di Saturno: Rhea. Questa scoperta è stata una vera sorpresa per gli astronomi, sarebbe la prima volta in assoluto che si trovano anelli attorno ad una luna.

Di solito le condizioni affinché si formino degli anelli sono due: che si siano verificati degli scontri tra corpi rocciosi orbitanti che hanno formato dei detriti e che la forza di gravità sia sufficiente a trattenere questi detriti in orbita. Due condizioni che si verificano sicuramente per i pianeti giganti gassosi.

Un sistema di anelli attorno ad una luna è una sorpresa perché il campo gravitazionale di Saturno dovrebbe destabilizzare la formazione stessa degli anelli.

L'ipotesi più accreditata è che questi anelli si sono formati recentemente cosicché la forza gravitazionale di Saturno non ha ancora avuto il tempo di destabilizzarli. In ogni caso gli astronomi, per ottenere nuovi dati, attenderanno il 2010, quando la sonda Cassini, tornerà a passare vicino a Rhea.

 

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martedì 8 luglio 2008

I megaliti della Bretagna. A cosa potevano servire questi spettacolari monumenti preistorici?

A cosa potevano servire questi spettacolari monumenti preistorici? Un'ipotesi, probabilmente troppo sofisticata, suggerisce che potessero rappresentare osservatori lunari per la previsione di eclissi.

La fama che è stata acquisita nel passato dalla Bretagna, la regione della Francia protesa come una punta verso l'Atlantico, era quella di una terra coperta di brughiere in una atmosfera piena di brume e di umidità; una povera terra di pescatori e di contadini, dominio di antiche leggende e di ricordi di misteriosi riti celtici. A parte alcune splendide città dalla storia millenaria: Rennes, Brest o St. Malò, per esempio, il resto era descritto come una tetra campagna ove misteriose colossali pietre verticalmente fisse nel terreno, i menhir, si ergono, quali enormi giganti pietrificati, qua e là tra l'erica e gli arbusti assieme a numerosissimi dolmen, silenziosi testimoni di antiche sepolture. Oggi, per contro, l'aspetto di questa regione è del tutto cambiato. Rimboschimenti iniziati nel secolo scorso hanno generato estese pinete e vasti boschi cedui i quali hanno reso il paesaggio stupendamente variato e affascinante, specialmente nelle luminose giornate di Sole autunnali, quando con violente sciabolate la luce penetra fin nei punti più reconditi del sottobosco, variegando con luci ed ombre tante misteriose ed enormi pietre che ancora oggi testimoniano riti ormai perduti. Le vecchie caratteristiche case bretoni, dal tetto di paglia, povere ed umide, oggi sono quasi scomparse; ad esse si sono sostituite bianche villette coperte da tetti d'ardesia, tutte dello stesso inconfondibile stile.
Il turismo, attratto specialmente dalle splendide spiagge della costa sud, ma soprattutto dagli stupendi, immensi monumenti megalitici, ha portato ricchezza nella regione, e di conseguenza un livello assai più alto di vita.
Carnac, la culla dei monumenti megalitici francesi, è una linda luminosa cittadina piena di attività, sia nel campo turistico che in quello culturale. Uno splendido museo, tra l'altro, raccoglie con ordine ed intelligenza i resti archeologici trovati all'inizio di questo secolo in tutta la regione, specialmente per opera di Zacharie Le Rouzic, di cui il museo porta il nome.
Ma cosa vi è di eccezionale nei dintorni di Carnac?
Il viaggiatore che giunge in macchina nella cittadina bretone si rende immediatamente conto che v'è una caratteristica speciale nel paesaggio. Vicino alle prime case, a nord del paese, per esempio, una enorme quantità di grandi massi appaiono, all'occhio stupito del visitatore, stranamente allineati in file tra loro parallele; il tutto forma una serie di lunghi viali che si perdono in lontananza fin dove può giungere lo sguardo.
Sono forse opere di giganti?
O di genti straordinarie? Certamente si; gli antichi armoricani che hanno costruito tutto questo, sicuramente erano dei veri giganti nelle idee, per poter organizzare una simile impresa, ed erano anche straordinari sia per la tenacia che per la temerarietà dell'opera; certamente erano spinti da una grande idea religiosa che ha generato la forza necessaria al compimento di questi monumenti. Fu certamente l'idea di una vita che si prolunga oltre la morte che permeò tutta la loro attività, e fu soprattutto il culto dei loro defunti a vivificare la loro fede, quel culto che anche in epoche più moderne ha lasciato tanti segni molto belli ed incisivi in tutte quelle manifestazioni, artistiche e di costume, che ancora oggi si ritrovano tra le popolazioni della Bretagna.

Le Menec è il primo grande allineamento che si incontra quando si esce dalla città dopo aver visitato l'mmenso tumulo artificiale di Saint Michel, costruito circa 6000 anni fa.
Diretto da ovest-sud-ovest verso est-sud-est, l'allineamento di Le Menec è formato da 11 o 12 file di grosse pietre alcune delle quali raggiungono i quattro metri di altezza e il considerevole peso di 50 tonnellate. Le dimensioni di questi menhir vanno calando da ovest verso est, raggiungono la minima altezza proprio nel mezzo dell'allineamento per poi aumentare ancora di dimensioni verso la fine del complesso monumentale senza però mai raggiungere la grandezza delle prime. La visione, specialmente guardando dall'estremità ovest, è assolutamente affascinante; neanche le migliori fotografie riescono a rendere l'atmosfera che aleggia tra queste pietre. Alcuni menhir mostrano qualche cenno di lavorazione, qualche incisione, altri invece appaiono rozzi e quasi informi, sono ancora così come quando furono raccolti da chissà dove. Man mano che si procede verso est, l'erica incomincia con i suoi ciuffi a circondare gran parte delle pietre che diventano sempre più piccole, finchè in taluni posti la macchia di arbusti quasi soffoca i piccoli menhir, come se la natura tentasse di riprendere i suoi diritti.
Sempre più incuriosito, e dimentico della stanchezza, il visitatore procede lentamente tra le lunghe file di menhir per ben 1165 metri e, se per caso avesse la pazienza di contare, annovererebbe ben 1099 pietre di tutte le dimensioni: dai quattro metri d'altezza fino ai cinquanta centimetri, così da divenire quasi indistinguibili dai massi comuni.
Le varie file di menhir non sono equidistanti tra loro, e quasi a metà dell'allineamento vi è anche una deviazione, la direzione dei viali di pietre cioè cambia, piegando lievemente verso nord; in quel punto l'archeoastronomo inglese Alexander Thom, che ha studiato per lunghi anni questi allineamenti, ha trovato che per tracciare questa deviazione gli antichi costruttori hanno applicato le proprietà di un triangolo pitagorico. Lo stesso Thom ha trovato poi che in tutte le costruzioni megalitiche della zona di Carnac è stata usata una unità di misura comune, la cosidetta "yarda megalitica" (MY), la cui lunghezza, dai suoi calcoli, risulta essere pressoché la stessa di quella che veniva usata, sempre secondo la sua teoria, in tutta l'Inghilterra della stessa epoca.
Personalmente ho qualche dubbio che questa ipotesi sia vera; l'uso di una unità di misura comune a paesi diversi è già di difficile attuazione al giorno d'oggi, immaginate se ciò poteva sussistere in quelle lontane epoche. E poi, sembra assai problematico che si possa trovare una unità comune dalle misure fatte sulle posizioni di massi aventi le più diverse forme e dimensioni.
Alle due estremità di Le Menec esistono due specie di circoli di pietre (cromlech) ormai assai mal ridotti. Qualche loro traccia si intravvede nell'estremità ovest dell'allineamento se si ha la pazienza di cercare tra i cortili delle case quei grossi pietroni, disposti apparentemente in modo irregolare, che formano il contorno di uno di questi cerchi. In realtà non si tratta di veri e propri cerchi ma piuttosto di ovali, molto grandi, formati rispettivamente da 70 pietre, quello occidentale, e da soli 25 menhir, quello orientale. Dell'ovale orientale è molto difficile scorgere non solo la forma, ma anche le stesse poche pietre che lo compongono; l'erica e le grandi piante infatti rendono confusa la visione completa.

A circa seicento metri dalla fine dell'allineamento di Le Menec ne inizia un altro che ha, più o meno, le stesse caratteristiche. Si tratta di Kermario, un monumento il quale, come il precedente, inizia ad ovest con pietre di maggiori dimensioni per procedere poi, con una decina di file di menhir, su e giù tra le ondulazioni del terreno per oltre un chilometro. Ad un certo punto un avvallamento ed un laghetto, poco più di una pozzanghera, interrompono l'allineamento, che ricompare poi sull'ultima parte del complesso, verso est, terminando a 1120 metri dall'inizio. Ben 982 pietre sono state contate da Le Rouzic, tutte aventi dimensioni diverse; alcune addirittura raggiungono i sei metri d'altezza.
All'inizio, ad ovest, un magnifico dolmen a corridoio rende ancora più interessante la visione del monumento.
Per godere interamente dell'atmosfera del luogo conviene iniziare la visita al mattino presto, al sorgere del Sole. Se la giornata è perfetta allora le lunghe ombre dei colossi di pietra e il bagliore accecante dell'astro del giorno che appare sulla cima dei menhir, rendono così irreale l'ambiente da destare sensazioni veramente mai provate.
Dopo un centinaio di passi oltre Kermario si giunge ad un altro complesso litico, più piccolo ma non meno maestoso ed interessante dei precedenti, in special modo per la sua particolare forma a ventaglio che punta verso est; si tratta del monumento di Kerlescan. Questo, assieme al piccolo allineamento, quello di Petit Menec, ora coperto da fitta vegetazione, formava probabilmente, un tempo, un unico lunghissimo viale di menhir.
Di grande interesse è l'immenso cromlech, a forma di barile, che affianca ad ovest l'allineamento di Kerlescan; è difficile riconoscerlo perché è troppo vasto, ma, una volta intuitane la forma, il complesso appare nella sua maestosità e dà subito l'idea che sia servito, nella preistoria, quale recinto per la celebrazione di grandi cerimonie. Il suo lato rettilineo, posto dalla parte del grande ventaglio, ha una perfetta orientazione meridiana. I 13 allineamenti che formano Kerlescan hanno tutti direzioni lievemente diverse e il primo e l'ultimo sono diretti sul sorgere del Sole rispettivamente nel solstizio estivo ed in quello invernale.
A cosa potevano servire questi enormi spettacolari monumenti? Per ora nulla possiamo dire di sicuro; probabilmente venivano usati per scopi cultuali, ma questa è solamente un'ipotesi. Le poche indicazioni a carattere astronomico che abbiamo visto emergere da Kerlescan possono suggerire tuttavia l'idea che qualche criterio di questo tipo sia stato applicato al monumento. Non vorremmo certo accettare la battuta di G. Flaubert che dei complessi megalitici della zona soleva dire: "Le pietre di Carnac sono delle grosse pietre!". Qualcosa di più certamente devono aver rappresentato nella preistoria se non altro per l'enorme mole di lavoro che sono costate.
Non vorremmo tediare il lettore descrivendo gli innumerevoli monumenti che costellano la campagna attorno a Carnac; non è questo il nostro scopo. Ciò che a noi interessa è esaminare quei monumenti sui quali sono stati misurati riferimenti a carattere astronomico e accennare rapidamente alle varie questioni che ad essi sono associate.

Nei pressi dell'allineamento di Kermario, entro il giardino di una splendida villa, vi è il tumulo sepolcrale di Kerkado, uno tra i più antichi della zona. Sopra il tumulo vi è un piccolo menhir il quale, assieme ad un altro che è posto ad una decina di metri di fronte all'entrata della tomba, forma un'allineamento diretto sulla levata del Sole al solstizio invernale. Curiosa coincidenza questa oppure un riferimento astrale a scopo rituale?
Non è questo il solo monumento che è orientato in questa direzione; l'autore ha avuto l'occasione di misurare altri complessi che hanno dato la stessa indicazione. Tra questi accenniamo solamente ai seguenti tre: il tumulo di Gravinis, sulla costa del golfo di Morbiham, il cui corridoio interno è fittamente decorato con innumerevoli stupende incisioni; il corridoio d'entrata del tumulo di Le Bono, nella stessa regione, ed infine l'asse del grande dolmen di Roche aux Fees (vicino a Rennes) che è diretto, come gli altri, sulla levata del Sole al solstizio invernale.
A pochi chilometri a nord di Carnac vi è il paesino di Crucuno, molto interessante sia per il grande dolmen al quale è stata affiancata una casa e la cui apertura è rivolta essa pure sul punto dell'orizzonte ove sorge il Sole al solstizio invernale, sia per il grande cromlech rettangolare di 25 per 33 metri, posto nella vicina campagna. I lati di quest'ultimo monumento sono esattamente orientati rispettivamente sul meridiano e sulla direzione equinoziale. Le diagonali del grande rettangolo puntano invece sulla levata del Sole ai solstizi.
Il monumento non poteva certamente servire per osservazioni astronomiche date le sue dimensioni relativamente modeste, a meno che non siano stati utilizzati dei particolari riferimenti costituiti da sporgenze delle pietre ma che fino ad ora non sono stati identificati; esso doveva essere orientato astronomicamente per chissà quale altro scopo, forse per qualche ragione di tipo cultuale.
Più a nord di Crucuno vi sono i grandi allineamenti di Kerzerho, facilmente visibili dalla strada che conduce da Carnac alla cittadina di Endeven, strada che ad un certo punto attraversa il monumento stesso. La direzione media delle lunghe file di menhir, dai dati dell'autore, è equinoziale. Un altro grandioso complesso megalitico che si trova a qualche centinaio di metri da Kerzerho, ha nel suo centro una grande pietra orizzontale la quale essendo solcata da numerose incisioni viene chiamata "pietra dei sacrifici"; questa, assieme agli allineamenti sopra ricordati attesta chiaramente la funzione cultuale alla quale era dedicato tutto il complesso monumentale. Certi allineamenti a carattere astronomico erano dunque riferiti più a fatti di carattere religioso che di tipo calendariale.
Ma veniamo ad altri monumenti della regione di Carnac e della baia di Quiberon sui quali sono state avanzate alcune ardite teorie.

Sulla penisola di Locmariaquer, ad una decina di chilometri da Carnac, giace a terra il più grande menhir che mai sia stato eretto; il suo nome bretone è Er Grah, ma più semplicemente viene chiamato con l'appellativo di Grand Menhir Brisé. La pietra era veramente enorme, un vero campanile, forse alto oltre 21 metri, e per giunta assai grosso. Un terremoto forse lo ha abbattuto chissà in quale epoca ed ora si possono scorgere solamente i quattro enormi frammenti che stanno ad attestare la maestosità del monumento. Vicino vi è la "Table des Marchands", uno splendido dolmen ricco di preziose incisioni e che è ricoperto ancora in parte dal suo tumulo di pietre. Secondo i lavori di Alexander Thom e del figlio Archibald, che hanno studiato dal 1970 al 1976 i vari monumenti della zona, pare che il Grand Menhir sia servito come indice per l'osservazione precisa delle posizioni assunte dalla Luna al suo sorgere e al tramontare.
Come si sa la Luna ha il piano dell'orbita che è inclinato di circa 5 gradi rispetto a quello dell'orbita della Terra. La linea dei nodi, cioè l'intersezione tra i due piani, ruota inoltre attorno alla Terra in 18,6 anni. Quest'ultimo fenomeno, come si sa, è intimamente legato alle eclissi, cioè a quelle manifestazioni celesti che nell'antichità, e specialmente nella preistoria, erano considerate di cattivo auspicio. A questi moti se ne aggiunge poi un altro, molto importante proprio per la precisione delle eclissi: il piano dell'orbita della Luna oscilla lievemente e periodicamente di 9' raggiungendo il valore massimo proprio in concomitanza con questi fenomeni. In altri termini, quando la Luna assume la sua massima o la sua minima declinazione v'è il pericolo che scompaiano apparentemente dal cielo (per un'eclisse) l'astro del giorno o quello delle notti.
I Thom hanno pensato che gli antichi popoli megalitici si fossero accorti di questa coincidenza e che proprio per prevedere le eclissi avessero istituito delle accurate osservazioni della posizione che assume la Luna alla sua levata o al suo tramonto. La massima o la minima declinazione dell'astro fissa, per un dato luogo, i punti della sua levata e del suo tramonto; osservando quindi ove sorge esattamente o tramonta il centro della Luna è possibile anche, in qualche caso, prevedere l'avvicinarsi del momento "pericoloso".
Per poter fare simili osservazioni, cioè per notare uno spostamento del centro della Luna di pochi primi, è necessario disporre di allineamenti molto lunghi; quale più bella mira allora del Grand Menhir che poteva essere visto da molto lontano? Ecco dunque l'idea dei Thom: da certi particolari luoghi della baia di Quiberon era possibile osservare il Grand Menhir stagliarsi sul centro esatto della Luna al sua sorgere e tramontare in quei momenti particolari. L'osservazione perciò consentiva la previsione dei periodi infausti nei quali poteva manifestarsi una eclisse.
Le ricerche dei Thom hanno consentito di individuare diversi luoghi, i quali spesso sono lontani anche qualche decina di chilometri dalla mira centrale
. In molti di questi, purtroppo, vi sono scarse testimonianze archeologiche che potrebbero provare l'ipotesi, mentre in altri si è trovato qualche monumento megalitico. Uno di questi luoghi particolari d'osservazione era, secondo i Thom, il cumulo di Le Moustoir che si trova a nord di Carnac; si tratta di una collinetta artificiale che copre una tomba. Dalla sua cima si poteva osservare il lontano Grand Menhir proiettarsi, in quei momenti infausti, sul centro della Luna al suo sorgere. Per curiosità vogliamo ricordare che di fronte al tumulo di Le Moustoir vi è un menhir la cui posizione è tale che la linea congiungente il centro del tumulo con la pietra fitta punta ove tramonta il Sole al solstizio invernale.
Il grande osservatorio lunare che fa centro sul Grand Menhir Brisé era stato preceduto, secondo Thom, da un altro osservatorio, più piccolo ma dello stesso tipo che ha costituito un vero e proprio complesso pilota. La mira centrale era rappresentata in questo caso del grande menhir di Le Manio. A poche centinaia di metri a nord di Kerlescan si trova infatti un curioso grande rettangolo di pietre e più oltre un grosso menhir che è alto quasi sei metri; è Le Manio, uno dei più interessanti rappresentanti di queste particolari pietre. Ebbene questo menhir doveva servire, secondo la teoria di Thom, come mira per l'osservazione dei fenomeni sopra accennati. Cinque dovevano essere i luoghi dai quali si faceva l'osservazione; uno di essi doveva trovarsi proprio sulla pietra fitta che è posta vicino alla estremità ovest dell'allineamento di Le Menec; gli altri sono pure stati individuati dai ricercatori inglesi.
Ma non basta; la teoria dei Thom prevede anche il fatto che per stabilire con esattezza i giorni infausti delle eclissi, era necessario interpolare i dati di osservazione. É noto infatti che difficilmente la Luna raggiunge la sua massima o la sua minima declinazione proprio al momento in cui sorge o tramonta in un dato luogo. Per poter individuare allora il momento esatto è necessario eseguire una interpolazione. Per questa operazione, in verità assai complessa, i Thom hanno trovato che i popoli megalitici utilizzavano i ventagli di pietre. Quello di Kerlescan, per esempio, ed un altro che si trova a Petit Menec potevano servire alla bisogna.

Questa dei Thom è una teoria assai sofisticata, difficile da credere che sia stata applicata veramente dai megalitici. Per giungere a certe sofisticazioni nelle osservazioni è necessario non solo possedere una mentalità di tipo scientifico, mai riscontrata per altre vie nella preistoria, ma è necessario anche poter registrare le varie osservazioni, molto accurate, in modo da poterle poi discutere.
Potevano far tutto questo i megalitici? In archeoastronomia, come in tutte le scienze, è necessario procedere con estrema prudenza; troppi sono stati gli errori commessi nel passato. Il metodo scientifico richiede sì fantasia per giudare e interpretare i vari dati d'osservazione, ma questa deve essere sempre temperata dalle condizioni al contorno, vale a dire, in questo caso, anche dall'apporto di altre discipline che possono controllare le varie ipotesi di lavoro.
Mentre gli orientamenti di tipo solare possono avere una interpretazione confortata in qualche modo anche da altri documenti archeologici, storici ed etnografici, quelli di tipo lunare dovrebbero essere considerati invece con molta più prudenza non esistendo finora documentazioni sicure sulla loro utilizzazione nella preistoria.
A parte queste considerazioni di tipo scientifico resta il fatto che i monumenti megalitici della Bretagna rappresentano una delle maggiori opere della preistoria europea
, degni di stare alla pari con i grandi complessi architettonici creati dalle culture cosidette superiori.

GLOSSARIO

Cromlech.
 

É un monumento preistorico di età neolitica (III-II millennio a.C.) piuttosto diffuso nei paesi dell'Europa settentrionale: un circolo di grossi massi conficcati nel suolo. A volte è costituito da più circoli concentrici che possono essere protetti tutt'attorno da un terrapieno o da un fossato. Spesso dal centro del cromlech si dipartono allineamenti di pietre che ne segnano le vie d'accesso rituali. Famoso è il cromlech di Stonehenge, in Gran Bretagna.


Dolmen.

Monumento funebre d'età preistorica diffuso in tutta l'Europa, dal Mediterraneo ai Paesi Scandinavi, costituito da quattro lastroni di pietra confitti nel suolo a formare un parallelepipedo e sovrastati da una quinta lastra orizzontale che chiude la costruzione. All'interno venivano posti il corpo del defunto e numerosi arredi funebri. Il dolmen può presentare varianti complesse (in genere, quelli di epoche più antiche) come l'essere ricoperto da un tumulo di terra, l'essere circondato da circoli di pietre. Si dicono "a corridoio" quelli a cui si accede attraverso un cunicolo, delimitato da lastroni, che poi si allarga in una o più camere funerarie.


Menhir.


Il vocabolo deriva (come anche cromlech e dolmen, del resto) da termini dialettali bretoni. In questo caso il significato è "pietra lunga" essendo il menhir un masso di forma cilindrica, molto lungo rispetto alla larghezza, che veniva infisso nel terreno. La pietra poteva essere grezza, oppure rozzamente lavorata in modo da raffigurare figure umane stilizzate. Molto diffuso in tutta Europa.


Megaliti.


Con questo termine, che deriva dal greco megas lithos e che significa "grosse pietre", si indicano generalmente i massi e i lastroni di pietra che costituivano gli elementi costruttivi di monumenti eneolitici come dolmen, cromlech e menhir.

(tratto da un articolo di Giuliano Romano; L'Astronomia, n° 66, maggio 1987).

 

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Vuoi avere rapporti sessuali con un robot?

Alcuni mesi fa l'esperto di intelligenze artificiali David Levy disse che entro il 2050 sarebbe stato possibile, grazie al progresso della robotica, avere rapporti sentimentali e sessuali con i robot.

A sostegno di questa ipotesi sono intervenuti anche alcuni psicologi che hanno analizzato alcuni motivi di base per cui le persone si innamorano. Secondo loro la maggior parte di questi motivi sono applicabili anche ad un rapporto umano-robot. Ad esempio uno dei motivi è che le due persone che si innamorano sono simili nella personalità e nel livello culturale. Questo potrebbe essere programmabile.

Si dice spesso che il denaro non può comprare l'amore, ma nel caso dell'amore con i robot, sembrerebbe di sì. Ma siamo sicuri che sarebbe davvero amore? Oppure solo la proiezione del sogno di un partner ideale, che non vuole mai nulla in cambio?

Immaginate l'acquisto di un robot per "amore e sesso", presso una grande catena di negozi di elettrodomestici. I robot avrebbero un aspetto fisico personalizzabile, così molti lo vorrebbero con la faccia e il corpo della star dello spettacolo che li fa arrapare...

Nei prossimi decenni ci aspetta una nuova prospettiva nel concepire l'amore e il sesso? Non lo sappiamo. Sappiamo però che ogni volta certe "rivoluzioni" sono guardate con sospetto e con timore, però le paure non hanno mai fermato certi cambiamenti della società.

Prepariamoci quindi a vedere cose che non ci eravamo nemmeno immaginati...

Voi cosa immaginate che potrebbe succedere?

 

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Mi volete lasciare in pace?

Ho scovato su internet questa foto e l'ho trovata emblematica. Io spero per noi italiani che non finiamo nella stessa situazione dell'immagine e che non vengano a toglierci il cibo direttamente dalla bocca!

Ma spesso le speranze vengono disattese...

 

(Fonte)

 

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lunedì 7 luglio 2008

Tutte le paure della gente

E' difficile non avere paura di niente. La paura è una sensazione normale. Anche coloro che affermano di non averne, in realtà spesso mentono, o forse hanno paura di ammetterlo (quindi almeno questa paura ce l'hanno...). Se la paura è normale, la fobia invece è uno stato emotivo patologico per cui si ha una paura esagerata, immotivata e sproporzionata nei confronti di qualcosa o di qualcuno. In realtà le fobie sono più comuni di quanto si possa credere e questo ci fa capire che il confine tra patologia e normalità (dal punto di vista mentale) è un confine quanto mai labile e sfumato. Gli psicologi hanno stilato un lungo elenco di fobie (alcune sono davvero bizzarre). Leggendolo credo che in pochi potranno dire di non averne proprio nessuna...

ablutofobia paura di fare il bagno
acluofobia paura del buio
acusticofobia paura del rumore
acrofobia paura dei luoghi elevati
agorafobia paura degli spazi aperti
ailurofobia paura dei gatti
alectorofobia paura dei polli
allodoxafobia paura delle opinioni degli altri
amatofobia paura della polvere
androfobia paura degli uomini
anemofobia paura del vento
apifobia paura delle api
aracnofobia paura dei ragni
aurofobia paura dell'oro
automisofobia paura di essere sporchi
aviofobia paura di volare
bhacillofobia paura dei microbi
bibliofobia paura dei libri
bufonofobia paura dei rospi
carcinofobia paura di ammalarsi di cancro
catisofobia paura di sedersi
chemofobia paura dei composti chimici
chinofobia paura della neve
colerofobia paura della collera
crometofobia paura dei soldi
cromofobia paura dei colori
cibofobia paura del cibo
cinetofobia paura del movimento
cinofobia paura dei cani
claustrofobia paura degli spazi chiusi
climacofobia paura delle scale
coprofobia paura delle feci
coulrofobia paura dei clown
ciclofobia paura della bicicletta
decidofobia paura nel prendere decisioni
dendrofobia paura degli alberi
dentofobia (o odontofobia) paura del dentista
dermatofobia paura delle lesioni della pelle
didascaleinofobia paura della scuola
dichefobia paura della giustizia
dipsofobia paura di bere
disabiliofobia paura di spogliarsi di fronte a qualcuno
dromofobia paura dei mezzi di locomozione
dismorfofobia paura di non avere un aspetto normale
ecclesiofobia paura delle chiese
eisoptrofobia paura degli specchi o di vedervisi riflessi
electrofobia paura dell'elettricità
eleuterofobia paura della libertà
eliofobia paura del sole
emetofobia paura del vomito
emofobia paura del sangue
enofobia paura del vino
entomofobia paura degli insetti
equinofobia paura dei cavalli
eremofobia paura della solitudine
ergofobia paura del lavoro
ereutofobia (o eritrofobia) paura di arrossire
erpetofobia paura dei rettili
eufobia paura di sentire buone notizie
falacrofobia paura di diventare calvo
farmacofobia paura delle medicine
filofobia paura di innamorarsi
fobofobia paura delle fobie
fonofobia paura dei rumori
frigofobia paura del freddo
gamofobia paura del matrimonio
gefirofobia paura nell'attraversare i ponti
glossofobia paura di parlare in pubblico
gimnofobia paura della nudità
ginofobia paura delle donne
iatrofobia paura del medico
idrofobia paura dell'acqua
ittiofobia paura dei pesci
keraunofobia paura dei tuoni
leucofobia paura del colore bianco
mastigofobia (o rabdofobia) paura delle punizioni
melofobia paura della musica
menofobia paura delle mestruazioni
micofobia paura dei funghi
musofobia paura dei topi
necrofobia paura della morte
nefofobia paura delle nubi
neofobia paura delle novità
nictofobia paura della notte
nosocomefobia paura degli ospedali
odinofobia paura del dolore
ofidiofobia paura dei serpenti
oicofobia paura della casa
ombrofobia paura della pioggia
ommetafobia paura degli occhi
omofobia paura dell'omosessualità
ornitofobia paura degli uccelli
pagofobia paura del ghiaccio
papafobia paura del papa
papirofobia paura della carta
parassitofobia paura dei parassiti
patofobia paura delle malattie
pedofobia paura dei bambini
pirofobia paura del fuoco
plutofobia paura della ricchezza
radiofobia paura delle radiazioni
sciofobia paura delle ombre
scolecifobia paura dei vermi
scotomafobia paura di diventare ciechi
scriptofobia paura di scrivere in pubblico
selenofobia paura della luna
sfecsofobia paura delle vespe
siderodromofobia paura dei viaggi in treno
siderofobia paura delle stelle
staurofobia paura dei crocifissi
stenofobia paura degli spazi stretti
simmetrofobia paura della simmetria
tacofobia paura della velocità
tafofobia paura dell'essere sotterrato vivo
tecnofobia paura della tecnologia
talassofobia paura del mare
tanatofobia paura della morte o di morire
termofobia paura del caldo
tossifobia paura di essere avvelenati
triscaidecafobia paura del numero 14
tripanofobia paura delle iniezioni
tropofobia paura del muoversi, del cambiare luogo
uranofobia paura del cielo
urofobia paura dell'urina
vaccinofobia paura delle vaccinazioni
venustrafobia paura delle belle donne
verbofobia paura delle parole
xantofobia paura del colore giallo
xenofobia paura degli stranieri
zoofobia paura degli animali

 

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domenica 6 luglio 2008

Isaac Newton

Isaac Newton nacque nel villaggio di Wollsthorpe della contea di Lincoln il giorno di Natale del 1642. Nel gennaio 1661 fece il suo ingresso nel Trinity College di Cambridge, ove iniziò gli studi matematici sotto la direzione di Barrow. Avendogli questi consigliato di leggere l'Ottica di Keplero, Newton si accorse di non poterlo fare, poiché tale opera conteneva sviluppi analitici superiori alle proprie conoscenze. Allora si rivolse dapprima allo studio di Euclide, poi a quello di Cartesio e degli altri matematici della prima metà del Seicento; fu soprattutto l’Arithmetica infinitorum di Wallis ad esercitare su di lui un'indelebile influenza. Parallelamente agli studi matematici, si dedicò pure ad osservazioni astronomiche e ad esperienze di fisica e di chimica, mostrando fin da allora le sue capacità di sperimentatore, la sua abilità nella costruzione di apparecchi e il suo amore per il lavoro manuale.

Nel 1665 conseguì il titolo accademico di baccelliere. A tale anno risale anche il suo primo studio sulle flussioni. Poco dopo però dovette abbandonare Cambridge per sfuggire ad una terribile pestilenza che infieriva in tutta l'Inghilterra; si pensi che nell'estate 1665 morirono, nella sola Londra, più di trentamila persone. Ritiratosi nel suo piccolo possedimento di Wollsthorpe, vi rimase circa due anni, e questo periodo di involontario isolamento si ripercosse assai favorevolmente sui suoi studi. Concentratosi interamente nelle proprie ricerche, il giovane Newton elaborò nel 1665-67 il nucleo principale di tutte le sue più importanti scoperte, matematiche e fisiche. Fu qui che, secondo la leggenda, la famosa mela cadutagli in testa avrebbe fatto sorgere in lui l'idea della gravitazione universale. Fu ancora qui che Newton scoperse l'ineguale rifrangibilità dei raggi luminosi, preparò la costruzione del primo telescopio a riflessione, riuscì a perfezionare il calcolo delle flussioni, giunse al famoso teorema del binomio, ecc.

Tornato a Cambridge dopo la cessazione della peste, vi conseguì fra il 1667 e il 1668 altri tre gradi accademici. Sottoponeva intanto i suoi manoscritti di argomento matematico all'esame di Barrow, e questi, sia per aver compreso l'eccezionale valore del discepolo, sia perché ormai personalmente interessato più alla teologia che alla matematica, decise di rinunciare alla cattedra in favore del giovane Newton.

In questi anni egli si occupa soprattutto di ottica e nel febbraio del 1672 comunica alla Royal Society (di cui era stato eletto membro un mese prima) una celebre memoria sulla luce e i colori. La grande importanza ditale scritto viene sottolineata da uno studioso moderno di Newton, il russo Sergej Ivanovic Vavilov, con queste parole: in esso “si mostrò per la prima volta al mondo ciò che la fisica sperimentale poteva compiere, e come essa doveva essere. Newton costringe l'esperimento a parlare, a rispondere ai quesiti e a dare risposte tali da farne risultare una teoria”. Anche se, a rigore, Newton non fu effettivamente il primo a interrogare la natura con precisi esperimenti (basti menzionare la tradizione sperimentalistica che va da Galileo a Pascal, agli accademici del Cimento, ecc.), è certo che seppe farlo con sistematicità e penetrazione davvero esemplari, sforzandosi di elaborare la teoria fisica dei fenomeni studiati in stretto rapporto ai risultati sperimentali raggiunti.

La matematica assumerà di nuovo qualche anno più tardi un posto predominante nell'animo di Newton, in quanto egli vi scorgerà lo strumento indispensabile per la trattazione scientifica rigorosa dei fenomeni astronomici e in particolare per la confutazione delle concezioni cartesiane di essi (concezioni che avevano un carattere qualitativo assai più che non autentica­mente quantitativo). I risultati delle indagini meccanico-astronomiche di Newton verranno da lui per la prima volta esposti, in forma ancora incompleta, in una memoria originariamente intitolata De motu corporum e in seguito Philosophiae naturalis principia mathematica. Questa venne presentata nell'aprile 1686 alla Royal Society che subito ne propose la stampa. Dopo un'ampia rielaborazione compiuta da Newton stesso, essa verrà pubblicata in tre libri nel 1687, per merito soprattutto dell'astronomo Edmund Halley che pagò personalmente le spese della stampa e ne corresse le bozze.

Dieci anni prima Newton aveva inviato a Leibniz due lettere sulle flussioni. Merita di venire ricordato che nell'edizione del 1687 dei Principia, come pure nella successiva, Newton riconosceva esplicitamente i contributi di Leibniz alla creazione del nuovo calcolo (in uno scolio alla proposizione VII del secondo libro).

La seconda edizione dei Principia uscì nel 1713; essa era stata accuratamente rivista da Roger Cotes, che ne scrisse pure una lunga e significativa introduzione, soprattutto diretta a due fini: 1. a porre in luce i caratteri specifici della “filosofia sperimentale”, che la distinguono sia dalla vecchia scienza aristotelica sia dalla fisica puramente ipotetico-matematica; 2. a confutare l'accusa, mossa da più parti a Newton, che la gravità sarebbe una “proprietà occulta” dei corpi, o comunque qualcosa di “preternaturale” e quasi “un miracolo continuo”. L'autore invece vi aggiunse il famoso Scolio generale.

Nel 1726 uscirà una terza edizione curata da Henry Pemberton. Essa è pressoché identica alla seconda, salvo che vi risulta soppresso l'anzidetto riconoscimento dei meriti di Leibniz alla creazione del calcolo infinitesimale. Tre anni più tardi ne uscirà una traduzione inglese ad opera di Andrew Motte.

Negli anni immediatamente successivi alla prima pubblicazione dei Principia si inserisce, nella vita di Newton, un'importante e significativa fase di attività politica che pone in luce i legami del nostro autore con la parte più progressista del popolo inglese. Essa ha inizio con la partecipazione di Newton ad una grave controversia tra l'università di Cambridge e il re Giacomo II Stuart che voleva imporre il conferimento di un titolo accademico non meritato a un proprio protetto, il frate benedettino Francis. L’università inviò a Londra una delegazione, con l'incarico di far recedere il re dalla sua richiesta; Newton, che ne faceva parte, fu uno dei più intransigenti difensori dell'autonomia dell'università e si ribellò ad ogni tentativo di compromesso. Il felice esito della missione accrebbe notevolmente tra i colleghi il prestigio del grande fisico.

La posizione politica, contemporaneamente progressista e legalitaria, di Newton può anche venire illustrata dalla seguente dichiarazione che egli scrisse ad un amico: “Ogni uomo dabbene è impegnato, secondo le leggi umane e divine, a seguire le disposizioni legali del re, ma se a Sua Maestà si consiglia di esigere qualcosa che secondo le leggi non può essere perseguito, nessuno deve essere punito se non vi ottempera”.

Caduti gli Stuart e salito al trono Guglielmo d'Orange, Newton fu eletto dall'università di Cambridge deputato al parlamento di Londra. In tale funzione fu assai utile all’Università come mediatore fra essa e il nuovo governo. La sua posizione di difensore dei whigs e di sostenitore del nuovo re rimase netta, malgrado le complicate oscillazioni dell'ambiente politico. Fu in questo periodo che Newton conobbe Locke diventandone stretto amico. I due pensatori esercitarono una notevole influenza uno sull'altro.

Terminato il mandato parlamentare, Newton ritornò a Cambridge e attraversò uno dei periodi più tristi della sua vita, per effetto di un esaurimento nervoso che lo portò alle soglie della pazzia. La voce popolare attribuì la causa del collasso a un incendio scoppiato nel suo laboratorio, nel quale sarebbero andati perduti molti preziosi manoscritti di lavori incompiuti, soprattutto note di carattere sperimentale riguardanti le sue ricerche di chimica.

La malattia lasciò in Newton gravi conseguenze; sicché, nemmeno dopo che si fu rimesso, poté riprendere i lavori scientifici con l'antica energia. Si può anzi dire che la sua produzione originale cessò interamente nel 1690, anche se molte sue opere vennero pubblicate dopo questa data.

Fra esse ricordiamo: le due lettere di Newton a John Wallis, di argomento matematico; la celebre Opticks (Ottica) pubblicata in inglese nel 1704 e in latino nel 1706, con due appendici, una sulle curve algebriche e l'altra sul calcolo integrale (quest'ultima portava il titolo di Tractatus de quadratura curvarum ed era stata composta nel 1665-66); l'Analysis per aequationes numero terminorum infinitas (Analisi mediante equazioni infinite ne/numero dei termini) scritta nel 1669 ma pubblicata solo nel 1711. Dell'Opticks si avranno, vivente Newton, altre due edizioni: nel 1718 e nel 1721. Uno dei più notevoli scritti di Newton su argomenti di analisi infinitesimale, Metbodus fluxionum et senerum infinitarum, da lui composto nel 1671, venne pubblicato postumo solo nel 1736.

Nel 1695 Newton ebbe la carica di ispettore della zecca di Londra; qualche anno più tardi ne divenne direttore generale, rinunciando alla cattedra universitaria. L'Inghilterra attraversava in questi anni un periodo di vero caos monetario, che minacciava la stabilità del nuovo regime instaurato con la seconda rivoluzione (del 1688). Newton, con la sua competenza tecnica e la sua rigida onestà, diede un prezioso contributo all'attuazione di una radicale riforma monetaria, e la crisi politico-finanziaria poté essere evitata.

Nominato membro delle maggiori accademie scientifiche europee, presidente della Royal Society di Londra (1703), e infine baronetto (nel 1705), Newton divenne senz'altro la più potente personalità scientifica dell'Inghilterra. Verso il 1704-5 sorse però tra lui e Leibniz la grave e assai spiacevole controversia circa la priorità dell'uno o dell'altro nell'invenzione del calcolo infinitesimale.

Per completare il quadro qui abbozzato della complessa figura di Newton, occorre infine aggiungere che egli fu uomo profondamente religioso e dotto teologo. Locke poteva scrivere di lui, nel 1703, queste parole: “Newton è uno scienziato veramente eccezionale, e per i sorprendenti successi conseguiti non solo nel campo della matematica ma anche in quello della teologia, e per la sua profonda conoscenza della sacra scrittura, nella quale materia pochi possono competere con lui”. Tale religiosità costituisce un tratto molto caratteristico, non solo della personalità di Newton, ma - come abbiamo già detto più volte - di tutta la cultura della società inglese del suo tempo.

Tra le opere di argomento religioso scritte dal nostro autore ci limiteremo a ricordare la Chronology (Cronologia), che gli costò vari anni di lavoro e venne pubblicata solo dopo la sua morte; in essa egli si proponeva di coordinare la cronologia della Bibbia con quella degli antichi egizi, greci, ecc. interpretando in modo nuovo i diversi testi e miti, al fine di eliminare le contraddizioni che, emergendo sempre più numerose dagli studi filologici sembravano porre in seria crisi l'autorità della sacra scrittura.

Morì nel 1727 e fu sepolto nell'abbazia di Westminster. Sulla sua tomba vennero incise le celebri parole: “Sibi gratulentur mortales tale tantumque exstitisse humani generis decus” (“Si rallegrino i mortali perché è esistito un tale e così grande onore del genere umano”).

[L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. II, Garzanti, Milano 1970, pp. 623-29]

 

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La vita di una stella

Come nasce una stella

Lo spazio è disseminato di nebulose: estesissime regioni ricche di gas e polveri finissime (comunque molto meno dense del vuoto più spinto ottenibile in laboratorio). E’ in tali regioni che i telescopi infrarossi hanno individuato “punti caldi” che mostrano tutte le caratteristiche calcolate teoricamente per una stella in formazione. Ciò dimostra che la formazione stellare è un processo che avviene tutt'ora e queste osservazioni sono proprio rivolte a “embrioni stellari”.

Per ragioni ancora non chiare (forse a causa dell’onda d’urto di una vicina esplosione stellare) in quelle nebulose il gas comincia ad addensarsi in certe regioni. La sua attrazione gravitazionale accelera il processo ed in qualche decina di milione di anni si forma un oggetto caldo. Se la temperatura raggiunge i 10 milioni di °C si accendono le reazioni termonucleari: nasce una stella.

La “maturità” di una stella

All’inizio la composizione chimica di una stella è la seguente:

- il 70% circa di idrogeno

- il 28% circa di elio

- il 2% circa di elementi più pesanti.  

Le reazioni nucleari avvengono solo nel nucleo; qui l’idrogeno si trasforma in elio fino al suo esaurimento. Ciò si verifica entro pochi milioni di anni per stelle di massa molto maggiore del Sole (poiché il tasso di produzione energetica è molto elevato a causa della reazione CNO), ed in qualche decina di miliardi di anni per stelle di 0,2 masse solari. 

La stella, fino a quel momento, rimane in “equilibrio”: l’azione di sostegno dei suoi strati  è svolta dall’energia prodotta nel nucleo. Quando questa viene a mancare la stella tende a collassare su se stessa per l’azione della forza di gravità.

La vecchiaia

L’esaurimento dell’idrogeno nel nucleo decreta l’avvento della morte dell’astro: esso da questo momento avrà le ore contate.

Il collasso che segue l’esaurimento dell’idrogeno, determina però un aumento della temperatura delle parti centrali della stella. In un “guscio” circostante il nucleo si riaccende la reazione di fusione dell’idrogeno in elio. Questa energia, poiché viene emessa più in prossimità della fotosfera, non è bilanciata dal peso degli strati esterni: l’astro allora si gonfia diventando una gigante rossa. In questo modo il Sole arriverà forse ad ingoiare persino Venere! La Terra a quel punto sarà arsa dall’enorme entità di quelle radiazioni così vicine.

Successivamente la temperatura del nucleo raggiungerà valori talmente elevati da consentire l’innesco della reazione di fusione dell’elio in elementi più pesanti.

La morte

Quando anche l’elio si sarà esaurito all’interno della stella e l’idrogeno non brucerà se non in esili strati, il Sole collasserà nuovamente, assumendo la parvenza di un tempo. Ma si tratterà solo di un’illusione per gli abitanti del sistema solare di quei giorni: il Sole splenderà infatti per trasformazione di energia gravitazionale in energia radiante; ormai l’idrogeno si va esaurendo anche in quelle zone in cui la temperatura permette ancora la reazione p-p.

L’astro è piccolo, compresso, caldissimo: una nana bianca. Un pugno di materia di una nana bianca è tanto denso da pesare centinaia di tonnellate.

Nel 1054 astronomi cinesi e giapponesi registrarono la comparsa di una “nuova stella”. Un astro luminosissimo nella costellazione del Toro che fu visibile anche di giorno per diversi mesi; poi diminuì lentamente di luminosità e scomparve. Era un’esplosione di supernova: là dove allora fu vista, oggi si trova la nebulosa del Granchio (M1), residuo dell’immane esplosione che caratterizza la fine delle stelle molto più massicce del Sole. In tali stelle, dopo quella dell’elio riescono ad innescarsi le fusioni di elementi via via più pesanti. Giunti al ferro però non è più possibile una reazione di fusione esoenergetica: la stella in pochi minuti (!) collassa su sé stessa, aumentando la temperatura centrale fino a miliardi di gradi e quella esterna fino a centinaia di milioni di gradi. In pochi istanti si accende sia la reazione p-p che le altre, anche nelle zone più esterne, ma l’astro non regge a tale esperienza, esplodendo. E’ in tali momenti che si formano gli elementi più pesanti del ferro.

Resta così solo una nebulosa ed un astro centrale superdenso: una “stella di neutroni” (ci si rivela come “pulsar”). Se la massa di tale inconcepibile oggetto supera le tre masse solari, esso diventa un buco nero, oggetto tanto denso che sulla sua “superficie” infinitamente vicina al centro di massa, la gravità è tanto forte da impedire persino alla luce di sfuggirvi e da modificare quindi lo “spazio-tempo” delle zone circostanti.

Giuseppe Marino

 

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Un delicato nastro di gas colorati galleggia leggero nella nostra Galassia

Una scia lasciata da un'astronave aliena? Un getto di materia proveniente da un buco nero? Niente di tutto questo. Questa immagine ripresa dal Telescopio Spaziale Hubble è solo una piccola porzione del residuo di supernova SN 1006. Si tratta del gas espulso da una tremenda catastrofe stellare avvenuta poco più di 1000 anni fa.

Approssimativamente l'1 maggio 1006, molti si accorsero che nel cielo, nella costellazione del Lupo, brillava una nuova stella straordinariamente luminosa. La "nuova stella" fu descritta da osservatori in Svizzera, Egitto, Iraq, Cina e Giappone. Alcune fonti indicano che la stella fosse abbastanza brillante da proiettare ombre; fu certamente visibile durante il giorno per qualche tempo, tanto che l'astronomo moderno Frank Winkler ha suggerito che "nella primavera del 1006, la gente potrebbe essere stata in grado di leggere manoscritti a mezzanotte per mezzo della sua luce". Era la testimonianza di una tragedia cosmica che avveniva a oltre 7000 anni luce di distanza. Fu visibile per quasi due anni e mezzo prima di indebolirsi e oltrepassare la soglia di visibilità dell'occhio umano.

L'evento fu dimenticato per quasi un millennio, quando, verso la metà degli anni '60, i radioastronomi trovarono una radiosorgente nella posizione corrispondente all'apparizione della stella. I diametro della sorgente era di circa 30 secondi d'arco. Ciò significa che i gas espulsi dall'esplosione della stella avevano raggiunto un diametro di 60 anni luce. La velocità di espanzione misurata era di 13 milioni di chilometri ogni ora. Dopo 1000 anni dall'esplosione è davvero notevole!

 

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