venerdì 11 aprile 2008

La difficile vita scolastica di Daniel Pennac

L'apprendistato scolastico fu disastroso, riscattato dalla letteratura. Un vero e proprio somaro, che ha impiegato un anno intero per imparare la lettera 'a' e ha fatto la maturità a vent'anni passati. Il pessimo alunno è Daniel Pennac, l'autore della tetralogia di Belleville, che racconta la sua difficile vita scolastica nell'autobiografico 'Diario di scuola' (Feltrinelli, pp 242, euro 16.00).
Questo libro ha già scalato le classifiche di vendita e sono già in molti ad averlo letto.
Lo scrittore francese narra le sue disavventure scolastiche, raccontate dal punto di vista degli alunni che vanno male a scuola. Daniel Pennac ha saputo capitalizzare i fallimenti trasformandoli nella capacità di comprendere la sofferenza del somaro, dei genitori e dei professori
Credo che ogni studente che soffre per i propri miseri risultati, ogni ragazzo che sente di non farcela proprio a seguire i ritmi della classe, possa trovare in queste pagine quell'energia morale, quella spinta che tutte le critiche sulle spalle gli hanno tolto.
Fin dal primo anno di scuola Daniel si è mostrato in seria difficoltà davanti all'apprendimento (un anno intero per imparare la prima lettera dell'alfabeto) e, col trascorrere del tempo, le cose non sono andate meglio.

L'autore affronta il grande tema della scuola dal punto di vista degli alunni. In verità dicendo "alunni" si dice qualcosa di troppo vago: qui è in gioco il punto di vista degli "sfaticati", dei "fannulloni", degli "scavezzacollo", dei "marioli", dei "cattivi soggetti", insomma di quelli che vanno male a scuola. Pennac, ex scaldabanco lui stesso, studia questa figura popolare e ampiamente diffusa dandogli nobiltà, restituendogli anche il peso d'angoscia e di dolore che gli appartiene. Il libro mescola ricordi autobiografici e riflessioni sulla pedagogia, sulle universali disfunzioni dell'istituto scolastico, sul ruolo dei genitori e della famiglia, sulla devastazione introdotta dal giovanilismo, sul ruolo della televisione e di tutte le declinazioni dei media contemporanei. E da questo rovistare nel "mal di scuola" che attraversa con vitalissima continuità i vagabondaggi narrativi di Pennac vediamo anche spuntare una non mai sedata sete di sapere e d'imparare che contrariamente ai più triti luoghi comuni, anima i giovani di oggi come quelli di ieri. Con la solita verve, l'autore della saga dei Malaussène movimenta riflessioni e affondi teorici con episodi buffi o toccanti, e colloca la nozione di amore, così ferocemente avversata, al centro della relazione pedagogica.(Da Quotidiano net M.Allo)

L'autore
Daniel Pennac, nato a Casablanca nel 1944 già insegnante di lettere in un liceo parigino, dopo un'infanzia vissuta in giro per il mondo, tra l'Africa, l'Europa e l'Asia, si è definitivamente stabilito a Parigi. Accanto all'attività di scrittore si dedica all'insegnamento ai ragazzi difficili. Quando comincia a scrivere scopre una particolare propensione per storie comiche, surreali ma ben radicate nelle contraddizioni del nostro tempo. Ha raggiunto il successo dopo i quarant'anni con la tetralogia di Belleville. Quattro romanzi, editi in Italia tra il 1991 e il 1995, incentrati sul personaggio di Benjamin Malaussène, di professione capro espiatorio, e relativa famiglia. Claudio Bisio ha portato in scena con grande successo la pièce che Pennac ha tratto dalla sua saga Signor Malaussène prodotto dal Teatro dell'Archivolto con la regia di Giorgio Gallione
La laurea in lettere nel 1969 e poi l'insegnamento (il padre gli scriverà più o meno questo concetto: se ci è voluta una rivoluzione per farti prendere una laurea, per il dottorato ci vorrà almeni una terza guerra mondiale...) e migliaia di ragazzi, molti dei quali "asini", passati davanti a lui e come dirà spesso "diventati", cioè cresciuti e rivisti a volte dopo molti anni.
Ma quanto è grande il dolore di chi non capisce? E come è difficile pensare: "non ci arriverò mai"! Pennac ci regala una vera lezione, ci fa capire come è possibile insegnare, ad esempio la grammatica, facendola capire anche a chi è un po' più "lento" rispetto alla media degli studenti e rispetto alle esigenze del professore.
C'è un'indicazione fondamentale per capire la differenza tra un "buon" professore e uno "cattivo": è buono quello che riesce a calarsi davvero nella classe.
E poi è necessario sfatare certe idee: il dettato, la valutazione, lo studio a memoria sono cose che possono essere valide o dannose a seconda di come vengono proposte. Seguono esempi molto efficaci di come certe tecniche d'insegnamento tradizionalmente odiate possono invece diventare divertenti e, soprattutto, utilissime.
L'esperienza di professore Pennac l'aveva fatta nei primi anni con classi particolarmente difficili: classi differenzaili che molti definivano soprattutto "delinquenziali" e la sua carriera ha visto anche sconfitte mai dimenticate. Il libro prosegue con piacevolissimi aneddoti che raccontano lo scrittore mentre sta scrivendo il libro, mentre ascolta alla radio dibattiti su un film visto, mentre pensa alla moglie, mentre dialoga con dei ragazzi sconvolti di ritrovare nei suoi libri le parolacce che usano quotidianamente, quando incontra un ragazzo con cui ha (sbagliando) un comportamento da adulto giudicante...
Dopo tante critiche, viene tessuto l'elogio dei buoni insegnanti, l'elogio dell'istituzione denigrata che può essere per alcuni l'unica salvezza. Ma oggi i ragazzi sono gli stessi di qualche decennio fa? "Strappato alla società industriale nell'ultimo quarto del XIX secolo, fu consegnato cento anni dopo alla società di mercato che ne fece un bambino cliente": è un consumatore, un cliente quello che oggi i professori si trovano davanti. Alcuni ragazzi dispongono del denaro dei genitori, altri si arrangiano. Spesso il professore non è preparato, non sa di avere davanti a sé un bambino cliente. Però lo può salvare "l'amore", parola che non si dovrebbe usare ma che ha un potere magico.
Come magica è la capacità di Pennac di entrare nelle nostre coscienze, divertendoci con la leggerezza con cui sa affrontare temi difficili, con il brio di una pagina piena di spunti di fantasia, di genio. Ma chi avrebbe mai scommesso su di lui quando era solo e semplicemente un asino?
.Lo scrittore francese, 64 anni, si dedica anche all'insegnamento dei ragazzi difficili e in questo libro ha scelto, per parlare del grande tema della scuola, proprio il punto di vista degli alunni che vanno male a scuola. ''Come mai - si chiede Pennac - alcuni bambini provano tanto dolore nel vivere il ruolo sociale di alunni? La mia risposta è la paura''. Ma quale paura? ''La paura - spiega - delle domande che possono essere rivolte al bambino. Tutti noi abbiamo paura delle domande che ci potrebbero porre oggi. Ci dimentichiamo che quel piccolo secondo necessario per rispondere è invaso da questa paura. La nostra identità si gioca nella risposta, anche se ci chiedessero dov'è la toilette''.
E, per un bambino che va a scuola tutte le questioni sono fondamentali. ''Penso - confida lo scrittore - che il mio status scolastico di somaro sia ampiamente dovuto al terrore assoluto nel quale mi gettava la minima domanda che mi veniva posta. Non capivo assolutamente nulla di nulla. Mi domandavo che cosa la scuola si aspettasse da me e che cosa ci stessi a fare li'''. Tutto questo aveva sviluppato anche una leggenda familiare per cui il padre di Pennac, che aveva un grande senso dell'umorismo, dopo aver visto che il figlio aveva impiegato un anno ad imparare la lettera 'a' disse: ''ma non c'e' problema perché tra 26 anni sapra' tutto l'alfabeto'' mentre la madre dello scrittore, per tutta la vita, lo ha considerato il suo ''figlio precario''.
Pennac ha saputo capitalizzare tutti questi fallimenti trasformandoli in una grande capacità di comprendere la sofferenza del somaro, dei genitori e dei professori, che è poi lo scopo di questo libro uscito in Francia dove ha vinto il premio Renaudot ed è ancora tra i libri più venduti con il titolo 'Chagrin D'Ecole' (Patema di scuola).
Il compito dei professori, può dire oggi Pennac, è quello di ''aiutare i ragazzi a guarire da questa paura innata fondamentale per poter insegnare qualcosa. Bisogna aprire le porte per far passare un sapere degno di questo nome. Non manca il metodo ma la maniera, le competenze legate a rapporti umani specifici che si instaurano con i bambini. Ci sono anche i casi in cui non si trova la chiave d'accesso per aprire le porte''.
E il discorso non vale solo per le scuole elementari: ''i professori che insegnano ai ragazzi più grandi dovrebbero fare stage con i bambini piccoli. C' è la tendenza a trovare i capri espiatori nei professori precedenti. Mancano le basi significa non è colpa mia. Siamo in piena globalizzazione e abbiamo tragicamente bisogno di silenzio, solitudine, sogno e gratuita'''. Anche per quanto riguarda l'immigrazione, altro tema caro allo scrittore, sono intervenuti nuovi fattori ''di natura economica, la disoccupazione, e il contraccolpo di alcuni conflitti mediorientali che in Francia si teme possano influenzare le periferie''.

Fonte: http://www.aetnanet.org/catania-scuola-notizie-10438.html

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giovedì 10 aprile 2008

Su linux possono girare simultaneamente ben 165 programmi. Guardare per credere!

Linux (nelle sue numerose distribuzioni) ha fama di essere un sistema operativo molto stabile e poco "vorace" in termini di requisiti di sistema. In questo recente video di YouTube possiamo vedere linux in azione: ben 165 programmi che girano simultaneamente! Ottimo risultato...

 

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Il Signore degli Anelli e il potere

Vi è mai capitato di innamorarvi perdutamente? Avete mai collegato una linea elettrica da un milione di volt ad un impianto che ne sopporta al massimo 220? Ebbene, sembrerà strano, ma le due situazioni si somigliano più di quanto voi possiate credere!

Eppure lo ricordate bene che quell’innamoramento vi dava una sofferenza che non riuscivate quasi a sopportare… E com’è finita? O è finita che la scarica ad un milione di volt vi ha bruciati, oppure siete rapidamente approdati ai tranquilli 220 volt di una normale storia d’amore, fatta di affetto e di gesti quotidiani. Se vi ha bruciati avrà anche scavato un profondo solco nella vostra anima. È probabile che da allora non siete più gli stessi… Avete imparato qualcosa di importante, oppure avete solo paura che la sofferenza possa ripetersi.

Siamo dei contenitori troppo piccoli per l’amore passionale; se in noi si riversa troppo amore (o anche troppo odio…), il contenitore fatalmente si rompe!

Che collegamento c’è tra tutto ciò ed il racconto-film il Signore degli Anelli?

J.R.R Tolkien, nella sua famosa trilogia fantasy, narra di un Anello dai magici e terribili poteri, forgiato nelle viscere di un vulcano da un mago malvagio. Il compito del protagonista (il mite e pacifico Frodo Baggins), a cui viene affidato l’Anello, è di riportarlo nella lontana terra in cui è stato creato, per gettarlo nel cratere del vulcano (il monte Fato). In questo modo il suo sconfinato e malvagio potere sarà cancellato per sempre.

I poteri della terra devono tornare alla terra. Non sono fatti per noi e non sono fatti per essere gestiti da UNO SOLO di noi. Siamo dei contenitori troppo piccoli…

In effetti l’Anello non ha nulla di malvagio IN SE, perché la malvagità è nel cuore degli esseri senzienti. L’Anello non fa altro che amplificare le capacità di chi lo possiede e gli dona poteri che nemmeno immaginava, ma invisibilmente e con lentezza lo annienta, riducendolo ad un’ombra. Se il misterioso oggetto venisse in possesso di un potente mago, le sue facoltà diverrebbero improvvisamente indomabili. Inoltre l’Anello al principio permette di controllare tali poteri, ma dopo breve tempo è la sua oscurità che pone un fatal velo di fronte agli occhi. Ora è lui che domina il malcapitato e lo dirige, inconsapevole, verso le tenebre.

Il tema del potere della terra che va restituito alla terra (o a Dio, o agli dei), ricorre frequentemente in tutte le culture del mondo.

Nei miti dell’antica Grecia si ripetono spesso situazioni in cui un personaggio viene punito per non avere reso un sacrificio agli dei. È ad esempio la storia di Atalanta. Abilissima nella corsa, promise di sposare chi l’avesse battuta. Solo Ippomene riuscì a vincere con l’aiuto di Afrodite che gli consigliò di lanciare sulla pista tre mele d’oro che la fanciulla si chinò a raccogliere perdendo tempo. Ma disgraziatamente gli amanti focosi partirono per consumare il loro matrimonio senza fare un sacrificio al tempio di Afrodite. Furono allora trasformati in una coppia di leoni.

Non hanno voluto “restituire” il potere che gli era stato consegnato, e così si sono bruciati, hanno avuto la punizione che meritavano. Quel potere gli era stato consegnato per compiere qualcosa, non per essere tenuto come un oggetto del proprio egoismo. Gli antichi Greci sapevano che persino l’innamoramento era un dono degli dei. Chi non rendeva grazie agli dei, per l’amore che essi gli avevano donato, sarebbe stato fatalmente punito!

L’Anello sta a simboleggiare tutto ciò: è il potere della terra e alla terra deve tornare; chi se ne appropria indebitamente fa un atto di tremenda “Hybris” e cammina a grandi passi verso la rovina.

Cosa ci può insegnare questa storia così bella, grandiosa e fiabesca? Abbiamo già detto che l’innamoramento è un potere troppo grande per poterlo gestire: siamo costretti a “restituire” il potere creativo che esso ci da, senza attaccarci né alla persona oggetto dell’innamoramento stesso, né dobbiamo aggrapparci alle splendide sensazioni che esso, in brevi e fuggevoli istanti, ci elargisce. Ma nell’Anello di Tolkien c’è molto più di questo…

Ambizione, egoismo, rabbia, paura, gelosia, invidia, desiderio di potere, desiderio di denaro. Tutti sentimenti che abbiamo provato almeno una volta nella vita, anche se la maggior parte di noi li ha conosciuti in forme molto leggere. Sono questi i sentimenti che l’Anello di Tolkien infonde nei suoi personaggi: coloro che lo possiedono non riescono più a liberarsene. Ma è possibile una cosa del genere?

Per fare un esempio comprensibile: se possedete molto denaro, avrete certamente la tendenza ad “essere posseduti” dal denaro. Cioè la ricchezza, a lungo andare, vi metterà nella condizione di dover pensare giorno e notte al denaro: a fare in modo che non sia rubato, che non sia dissipato, che aumenti sempre. Quindi se avete molto denaro, ne vorrete sempre di più e sarete disposti a passare sul cadavere di chiunque per possederne sempre di più. Lo stesso vale per il potere. Il potere corrompe, il potere assoluto corrompe in maniera assoluta! È molto difficile essere ricchi e potenti senza “montarsi la testa” e infatti, lo vediamo bene: sono in pochi quelli che ci riescono. Inoltre è molto difficile guardare coloro che hanno il potere e il denaro, senza mai desiderare di essere al loro posto! Almeno una volta…

La ricchezza e il potere vanno naturalmente intesi anche in senso figurato. Un uomo o una donna dotati, per fare un esempio, di immense capacità artistiche, possiedono una grande ricchezza. È una ricchezza interiore, ma la storia non cambia affatto. Anche per la ricchezza interiore ci si può “montare la testa”. È molto difficile resistere a questa tentazione.

Così com’era difficile per i personaggi del Signore degli Anelli, liberarsi dell’anello una volta posseduto. Era anche molto difficile “non desiderare” di possederlo.

Il solo pensiero dei poteri illimitati che poteva fornire, era sufficiente a scatenare l’aggressività di chiunque, anche dell’essere più buono e mite.

Nelle filosofie orientali l’abbandono dei desideri sensuali è molto importante per la realizzazione spirituale. Guardiamo attentamente agli insegnamenti del Buddha: l’estirpazione dal cuore dell’uomo di ogni residuo di ambizione è il presupposto per la realizzazione, per il Nirvana. Al contrario, l’indulgere ad abitudini mentali sbagliate, porta alla distruzione e, nel migliore dei casi, alla più acuta infelicità. Gesù afferma che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli. Tornando a livelli più “cinematografici”: nei film della saga di Guerre Stellari, il temibile cavaliere Jedi Darth Vader, cade nel Lato Oscuro della Forza a causa della sua smisurata ambizione e della consapevolezza della sua bravura. Anche la bravura è una ricchezza.

In realtà sappiamo bene, anche nel piccolo delle nostre vite, quanti disastri possa causare l’egoismo.

Alla fine cosa ci vuole insegnare la storia dell’Anello? Ci svela qualcosa che può essere utile alla nostra salute mentale e spirituale. Dobbiamo riconoscere ciò che c’è di più oscuro dentro di noi e ciò che c’è di più nobile. Si, perché spesso in questa età moderna, è più facile ammettere le proprie meschinità piuttosto che scoprire la propria nobiltà! Ci sentiamo pessimi, ma ciò ovviamente non è possibile. In noi risiedono sia la luce sia l’ombra. La salute mentale, come affermava C.G. Jung, dipende da come abbiamo saputo assimilare queste due opposte polarità, armonizzandole in un tutto unico.

Ma per fare ciò, siamo costretti ad affrontare un lungo viaggio dentro noi stessi; un viaggio simile a quello dei nostri eroi della Compagnia dell’Anello. È un cammino irto di difficoltà, di trappole, di agguati, di ostacoli, ma che porta in un solo luogo: al vero centro di noi stessi!

 

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La Tradizione

Cosa si intende in realtà per Tradizione? Nel dizionario Zingarelli, alla voce Tradizione troviamo:

tradizióne s.f. 1 Il tramandare notizie, memorie, consuetudini da una generazione all’altra attraverso l’esempio o testimonianze e ammaestramenti orali o scritti | est. Opinione, usanza, così tramandata: cerimonia regolata secondo una – antichissima. 2 Forma sotto la quale i documenti antichi e medievali sono giunti fino a noi. 3 Consegna di una cosa da un soggetto a un altro che ne acquista il possesso. 4 Uso o comportamento rituale non attestato nei libri sacri.

Si nota immediatamente che il significato principale riguarda la trasmissione di una conoscenza mediante l’uso della parola o meglio ancora dell’esempio pratico. Occorre mettere l’accento proprio su questi concetti fondamentali per analizzare le forme più interessanti di Tradizione che troviamo nel mondo. Quando ho scritto Tradizione ho usato il maiuscolo volontariamente, perché qui si intende scrivere di Tradizione sacra, o comunque di quella Tradizione che riguarda la spiritualità più profonda insita nell’animo umano. Non si confonda la Tradizione, quindi, con la religione, anche se in molti casi possono essere strettamente legate.

Nel bacino del mediterraneo sono numerose le Tradizioni che si sono venute a sviluppare nel corso dei millenni. Una delle più antiche attestabili è certamente la Tradizione spirituale egizia. Gli scritti del saggio Ptahotep (VI dinastia) sono un modello che ci mostra l’esistenza concreta di una Tradizione egizia, la cui profonda spiritualità e saggezza emerge da questo esempio:

Se l’atto di ascoltare incessantemente penetra colui che ascolta,

Chi ascolta diviene colui che comprende.

Quando l’ascolto è buono, la parola è buona.

Chi ascolta è padrone di ciò che è vantaggioso,

Ascoltare è vantaggioso per chi ascolta.

Ascoltare è meglio di ogni cosa,

[Così] nasce l’amore perfetto.

È amato da Dio colui che comprende.

Chi non comprende è odiato da Dio.

Solo chi ascolta comprende ciò che è detto,

Solo chi ama comprendere compie ciò che è detto.

Da questo frammento emerge subito una caratteristica molto profonda della Tradizione: il fatto che nell’atto di ascoltare c’è già la comprensione. L’ascoltare viene distinto dall’atto di sentire, perché per sentire bastano le orecchie, l’ascoltare implica invece una partecipazione attiva a ciò che si sente. Se si ascolta si è attivi e partecipi, se si sente si è passivi. Chi ascolta è consapevole ci ciò che sta sentendo, ne sta cogliendo il significato più profondo, pertanto ne raggiunge la comprensione. Infatti un altro frammento egizio recita: “Non dare insegnamenti a chi non ti vuole ascoltare” (Anekh-scescionqui), per mostrare ancora una volta che l’ascolto è ben distinto dalle percezioni sensoriali.

Ricordiamo come nel mondo egizio fosse importante l’architettura. Anche in questo caso la Tradizione svolgeva un ruolo importante. Esistevano delle vere e proprie “corporazioni” di costruttori di templi, la cui arte veniva tramandata da maestro ad allievo. Questo tipo di “trasmissione” è in effetti in uso in tutto il mondo per qualsiasi tipo di artigianato. Dalla Tradizione Egizia nascono quella Ebraica (che ha moltissimi punti di contatto con l’Egitto) e da quest’ultima quella Cristiana. Se la Tradizione occidentale ha un suo punto di partenza in Egitto, è proprio l’Egitto un collegamento con l’Oriente.

In Oriente le Tradizioni spirituali fioriscono con le correnti del Buddismo, Taoismo, ecc… Si raggiunge un culmine con la comparsa dello Zen (dopo il 1100), che potremmo riconoscere come l’espressione più pura e incontaminata di ciò che si può intendere per Tradizione.

Lo Zen può essere definito una corrente del Buddismo Mahayana che dapprima si trasferì in Cina, fondendosi con le concezioni del Taoismo, e che poi passò in Giappone, dove visse una nuova stagione di splendore. Nello Zen non abbiamo a che fare né con una religione, né con una filosofia, ma con una vera tecnologia della coscienza, che viene applicata senza luogo e senza tempo. Un insieme di aforismi, di aneddoti, di pensieri e di citazioni che ci porta alla dimensione più antidogmatica della Tradizione, quella in cui l’insegnamento spirituale viene dal vivere intensamente la vita stessa, lasciandosi dietro ogni condizionamento mentale e culturale. La mèta dello Zen è giungere alla “visione della propria essenza” (kensho) e infine al “risveglio” (satori). Cerchiamo di capire lo Zen aiutandoci con un fulminante aneddoto:

Una volta domandarono a Pai-chang in che cosa consistesse lo Zen, e lui diede la risposta tradizionale: “Quando ho fame, mangio, e quando ho sete, bevo”. “Ma questo lo fanno tutti!” gli risposero. “Lo credete voi!” egli disse. “Quasi tutti, quando mangiano o quando bevono, sono con la testa altrove”.

Ritroviamo ancora il tema originario dell’ascolto, ma stavolta è la vita stessa che dobbiamo ascoltare facendo uso di tutto il nostro essere.

Una Tradizione di origine medievale che ha nascita in Giappone è quella dei samurai. Nell' antichità il Giappone era suddiviso in tanti piccoli staterelli rivali l'uno con l'altro e viveva in uno stato di perenne guerra. I nobili richiamarono a loro dei guerrieri valorosi e fedeli: i samurai (dal verbo saburau = servire-essere al servizio).

I samurai seguono un codice di comportamento bellico chiamato bushido che letteralmente significa "via del guerriero", il punto fermo del bushido è l'onore sia in battaglia che nella vita comune, il bushido inoltre disciplina i rapporti da tenere in uno stesso clan e con il proprio capo. Il samurai deve essere sobrio, modesto, in guerra deve essere coraggioso, leale, solidale e naturalmente deve avere un grande onore. Inazo Nitobe scrivendo il suo bushido (1900) ne classifica due tipi: un bushido guerriero e un bushido confuciano. Effettivamente ai samurai erano attribuiti spesso due termini: bun che indicava saggezza di tipo confuciano e bu che indicava il contesto marziale. Infatti una delle doti essenziali del samurai era il giusto equilibrio tra azione e riflessione.

Dall'Hagakure:

"Un soldato dovrebbe seguire internamente la via della carità ed esternamente quella del coraggio; quindi il monaco impari dal soldato il coraggio e il soldato impari dal monaco la carità".

In realtà questi precetti sono comuni a tutte le arti marziali che si sviluppano in Oriente. Bisogna mettere in evidenza che in qualsiasi Tradizione esiste un rapporto stretto tra un maestro e un allievo. In questa interazione il maestro trasmette la sua conoscenza attraverso l’esempio pratico. Ciò avviene sia negli insegnamenti puramente spirituali, sia nelle arti marziali come nelle tecniche artigianali e architettoniche. Intendendo la Tradizione nella sua essenza più pura, possiamo cogliere che è la vita stessa ad insegnare all’individuo ciò di cui ha bisogno, se quest’ultimo è in grado di ascoltare.

Tornando in Occidente, verso la fine del medioevo, troviamo le misteriose corporazioni muratorie che erigevano cattedrali. Lo stile architettonico con cui costruivano era quello Gotico. Senza entrare nei dettagli costruttivi di questo meraviglioso stile, vogliamo riportare un aneddoto che si limita a mettere in evidenza il profondo spirito tradizionale di quegli antichi muratori.

“Si narra che un giorno un anziano signore fosse andato a visitare un cantiere dove si stava costruendo una Cattedrale e, visti tre operai che stavano tagliando le pietre, pose loro questa domanda: di che cosa ti stai occupando? Il primo rispose: a guadagnarmi la vita. Il secondo: a tagliare la pietra. Il terzo: a costruire una Cattedrale”.

Capiamo che ci troviamo di fronte a tre persone fra loro molto differenti. Il primo lavorava per la sopravvivenza e non si interessava al mondo dei simboli. Il secondo era un buon tecnico che non si interrogava sul significato dell’opera. Il terzo operaio, al contrario, pur lavorando alla pietra singola, aveva già la visione di tutta la Cattedrale che si innalzava verso il cielo. Egli comprendeva bene come il suo semplice lavoro fosse finalizzato a realizzare un tutto armonico pregno di significato simbolico. La Cattedrale gotica non è un prodotto di intellettuali sterili, ma una creazione autentica nata dall'unione tra lo spirito e il lavoro manuale.

L'insegnamento tradizionale è chiaro: esistono due “città”. Quella del cielo e quella della terra, quella di Dio e quella degli uomini, la Gerusalemme Celeste e quella Terrestre, ma non sono separate in modo assoluto. La Cattedrale che ha la sua base sulla terra e si innalza verso il cielo, è il simbolo vivente dell’unità della Creazione.

Ricordiamo che le corporazioni muratorie dei costruttori di cattedrali sembra che abbiano origine dallo sfaldamento dell’Ordine del Tempio, dopo il 1312, quindi dai Cavalieri Templari, cioè da quei famosi monaci guerrieri che potremmo quasi definire i “samurai dell’Occidente”.

Con questo finisce questa rapidissima e necessariamente incompleta carrellata sulle Tradizioni spirituali. Ma è il caso di chiudere citando una massima che non viene da un saggio dell’antico Egitto, né da un maestro Zen e nemmeno da uno ieratico monaco che medita nella solitudine delle montagne, bensì dall’occidentalissimo Gustave Flaubert:

“Solo ora, con la mia mano bruciata, ho il diritto di scrivere sulla natura del fuoco”.

 

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mercoledì 9 aprile 2008

L'infinito in matematica e non solo

Quando comincia il tempo e quando finisce? Dove comincia lo spazio e dove finisce? Quanto è grande l’Universo? Queste sono domande che ci strappano per un istante dai problemi della quotidianità e in un rapidissimo istante ci trasportano come per magia ai vertiginosi confini del pensiero umano. Si ha quasi l’impressione che lo spazio e il tempo non possano avere né un’origine né una fine. Per questo possiamo convincerci che siano cose che richiamano alla mente l’evanescente concetto di infinito. A questo punto chiediamoci: cos’è l’infinito? Leopardi avrebbe risposto così:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo; ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s’annega il pensier mio;

e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Si veda con che lucidità Leopardi definisce il nascere della sensazione dell’Infinito. In realtà egli ha una concezione dell’Infinito che deriva direttamente da quella dei filosofi dell’antica Grecia. È il concetto dell’Infinito Potenziale. Esso si ottiene aggiungendo sempre qualcosa all’ultima enorme grandissima cosa già concepita: limite che non tocca mai l’Infinito, ma che ad esso si avvicina tanto quanto si vuole. È l’idea dominante di Aristotele (IV sec. a.C.): egli lo immaginava come un numero enorme. Pur grande, grandissimo, è sempre possibile aggiungere ad esso un altro numero. L’Infinito Potenziale è quindi sempre al di sotto dell’Infinito. Nel III sec. a.C. anche Archimede si occupa del problema dell’Infinito.

Il grande pensatore siciliano ha un approccio davvero interessante con questo concetto: egli dà il primo esempio concreto di calcolo in cui il numero di cose realmente esistenti, anche se molto piccole, come lo sono i granelli di sabbia, non può essere Infinito. Archimede, facendo uso delle dimensioni che Aristarco attribuiva alla sfera della stelle fisse, calcolò il numero dei granelli di sabbia che potevano essere contenuti in quella sfera, dimostrando che esso doveva certamente essere finito.

È la prima volta che il concetto matematico di Infinito viene messo a confronto con la realtà fisica delle cose, e questa è una occasione che, come vedremo, si ripresenterà ancora nella storia del pensiero umano. In ogni caso Archimede stabilisce che l’Infinito è assolutamente estraneo alla realtà concreta, mettendo in evidenza il suo carattere necessariamente astratto. Nel nostro ambiente reale, niente può essere Infinito.

Nel 1638, Bonaventura Cavalieri, allievo di Galileo Galilei, si accorse che con l’Infinito sembra avvenire una cosa molto strana: una parte e il tutto sono equivalenti! Lo stesso Galileo affrontò il problema lavorando con i quadrati dei numeri interi. Il grande scienziato, fondatore del metodo scientifico, si accorse che essi sono altrettanto numerosi dei numeri interi, anche se di essi sono solo una parte. La cosa è davvero curiosa: come può essere che, giocando con l’Infinito, una parte è uguale al tutto? Infine Galileo sulla questione getta la spugna, affermando che la mente umana è limitata, quindi non potrà mai capire l’Infinito.

Il problema viene ripreso molto più tardi da Georg Cantor, facendo uso del concetto dell’Infinito Attuale. L’Infinito Attuale non viene concepito come qualcosa a cui si tende, ma a qualcosa che è già esistente, esso è quindi al di sopra di qualsiasi Infinito Potenziale. Grazie a ciò, nel 1873 è proprio Cantor che ci pone di fronte a qualcosa di veramente rivoluzionario: non esiste un solo livello di Infinito, ma ne esistono Infiniti!

Vediamo di spiegare meglio il concetto. Esiste l’infinito dei numeri interi (0, 1, 2, 3, 4,…). Ma sappiamo che questi non sono tutti i numeri possibili. Esistono anche i numeri reali, che sono quelli (per dare una descrizione molto semplicistica) con una o più cifre dopo la virgola (es: 1,33; 7,45678, 1,2289…). Anche questi numeri sono infiniti. Ebbene, Cantor riuscì a dimostrare che l’Infinito dei numeri interi è più piccolo dell’Infinito dei numeri reali. Egli non parlava ovviamente della grandezza nel senso che noi gli attribuiamo solitamente, visto che si trattava di insiemi infiniti di numeri. Cantor infatti indicava quello che noi chiameremmo grandezza di un insieme di numeri con il nome di potenza. Battezzò la potenza dei numeri interi con il nome di aleph-zero (aleph è la prima lettera dell’alfabeto ebraico), e con aleph-uno la potenza dei numeri reali. Insiemi ancora più potenti sono indicati come aleph-due, aleph-tre e così via. Quindi l’insieme dei numeri reali è più potente di quello dei numeri interi. Nessuno si era prima sognato di pensare a una cosa del genere, e cioè che potessero esistere diversi livelli di infinito. Le geniali intuizioni e dimostrazioni di Cantor furono approfondite da altri matematici nei decenni successivi e anche in tutto il XX secolo, estendendone i confini a concetti sempre più rivoluzionari.

Ovviamente l’Infinito dell’astrazione matematica, anche se ci affascina lasciandoci intravedere orizzonti sconfinati, non può esaurire l’argomento in questione. A noi interessa sapere una cosa altrettanto importante: esiste l’Infinito in natura? Archimede aveva già mostrato che esso non può esistere. Persino i granelli di sabbia, pur essendo in numero enorme, non sono infiniti.

Un’altra interessante argomentazione contro l’esistenza dell’Infinito in natura è quella che emerge nel Paradosso di Olbers (1826). Se l’Universo fosse Infinito e se ci fossero Infinite stelle distribuite in ogni regione dello spazio, affermava l’astronomo tedesco Olbers, il cielo di notte sicuramente non potrebbe essere nero!

Infatti se noi immaginiamo di tracciare una linea visuale che parte dalla Terra e attraversa lo spazio in una direzione qualsiasi, essa, prima o poi, dovrà incontrare una stella, visto che le stelle sono infinite. Da questo ragionamento si deduce che non ci dovrebbe essere una sola microscopica area del cielo in cui non si vedrebbe una stella; il cielo pertanto dovrebbe essere luminosissimo, visto che la luminosità superficiale delle stelle è molto alta.

Occorre dire che al tempo in cui Olbers formulò il suo ragionamento non si aveva conoscenza dell’esistenza di galassie, quasar e altri oggetti celesti, scoperti molto più recentemente. Questo però non inficia la validità delle argomentazioni. Ben altre osservazioni hanno poi confermato ciò che Olbers non poteva dimostrare se non solo con il suo astruso ragionamento.

Negli ultimi decenni, dopo le grandi scoperte della Fisica riguardanti la Teoria della Relatività e della Meccanica Quantistica, c’è una decisa tendenza alla assoluta esclusione dell’esistenza dell’Infinito in natura. Secondo l’ipotesi del Big Bang l’Universo sarebbe nato circa 15 miliardi di anni fa. Nessuno è in grado di affermare però se avrà una fine nel tempo e se, dopo questo inizio, continuerà ad esistere per sempre. Decine, se non centinaia, di congetture sono state elaborate dai fisici teorici negli ultimi decenni, ma nessuna ha mai avuto l’onore di essere stata confermata sperimentalmente.

La finitezza dell’Universo ha sempre messo a disagio filosofi e scienziati. Il filosofo greco Lucrezio pensava di poter dimostrare l’infinità dello spazio con questa argomentazione: se lo spazio è finito, ha un limite. Poniamo che qualcuno vada fino a questa ultima Thule e getti un dardo in avanti. O il dardo vola al di là del limite, oppure qualcosa lo fermerà, qualcosa che deve trovarsi a sua volta al di là del limite. Questa dimostrazione può essere ripetuta un qualsiasi numero di volte per spingere all’indietro il presunto limite all’Infinito.

Ma il ragionamento di Lucrezio, anche se apparentemente ineccepibile, viene completamente superato dalla teoria della Relatività Generale (Einstein, 1926). Secondo la visione relativistica lo spazio dovrebbe essere simile ad una sfera a quattro dimensioni (ipersfera). Una tale struttura, anche se impossibile da concepire mentalmente, chiarisce per quale motivo lo spazio, seppur finito, non ha confini. Per capirlo facciamo un esempio. Supponiamo di camminare sulla superficie (quindi a due dimensioni) di una normale sfera (a tre dimensioni) non infinita. È chiaro che possiamo camminare sulla superficie della sfera quanto vogliamo: non troveremo mai un confine! Perché non esiste un punto in cui la superficie della sfera finisce. La stessa cosa avviene nella sfera a quattro dimensioni: se ci muoviamo nello spazio a tre dimensioni, non troveremo mai un confine. Quindi si conclude che lo spazio e il tempo, seppur finiti, sarebbero illimitati. Ancora una volta l’Infinito viene abolito dalla visione della realtà concreta.

Sembra proprio che il processo di astrazione matematica ci porti allora ad esplorare nuovi mondi lontani, disgiunti dal mondo reale, ma che sembrano assumere una realtà propria, quasi a voler tradurre in realtà le parole di Platone (Repubblica – 511): “… procedere dalle idee stesse alle idee, attraverso le idee, per finire alle idee”.

(Bibliografia:

Antonino Zichichi, “L’INFINITO – L’avventura di un’idea straordinaria”, Nuove Pratiche Editrice, Milano 1998.

William Poundstone, "Labirinti della ragione", Edizione Club, 1991)

 

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La sindrome di Stoccolma

Si può provare un sentimento positivo nei confronti del proprio carnefice? Ebbene sì, e in psicologia questa situazione si chiama Sindrome di Stoccolma. L'uso di questa espressione è piuttosto recente e precisamente risale al 1973, anno nel quale avvenne un furto alla "Kreditbanken" di Stoccolma, durante il quale alcuni dipendenti della banca furono tenuti in ostaggio dai rapinatori per sei giorni. Le vittime provarono una forma di attaccamento emotivo verso i banditi fino a giungere al punto, una volta liberati, di prenderne le difese e richiedere per loro la clemenza alle autorità.

La condizione mentale della Sindrome di Stoccolma può portare all'ammirazione e persino all'innamoramento nei confronti di rapitori o carnefici e aguzzini.

Esistono vari casi eclatanti di Sindrome, i più famosi sono sicuramente quelli di Patty Hearst e di Elizabeth Smart. La prima, rapita nel febbraio del 1974, prese parte ad una rapina in banca insieme a due dei suoi rapitori due mesi dopo. Fu arrestata nel settembre del 1975 ma la sua difesa non riuscì a far valere la tesi della mancanza di colpevolezza a causa della manifestazione della sindrome di Stoccolma.

Elizabeth Smart fu rapita e stuprata da un uomo affetto da malattie mentali che la considerava sua moglie: tra il 2002 ed il 2003 la Smart trascorse diversi mesi insieme al suo aguzzino senza alcuna costrizione fisica.

Un caso dubbio di Sindrome si Stoccolma è invece quello di Natascha Kampusch. La Kampusch ha vissuto segregata col suo rapitore (Wolfgang Priklopil) dal marzo 1998 al 23 agosto 2006, giorno in cui è scappata. Ha testimoniato di avere avuto più volte la possibilità di scappare, ma ha preferito restare col rapitore. Il motivo della fuga, infatti, non è stato un desiderio di libertà, ma un litigio col rapitore stesso. Agli investigatori e agli psicologi che si prendono cura di lei ha testimoniato dicendo che non si sentiva privata di niente e che è dispiaciuta della morte del suo rapitore (che si è suicidato dopo che era scappata). La ragazza, però, intervistata dalla televisione austriaca il 6 settembre 2006, ha smentito le voci sulla sua presunta "sindrome di Stoccolma", aggiungendo di non aver mai rinunciato alla fuga. Ha solo manifestato pietà per il rapitore suicida e per la sua famiglia.

 

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Si torna a parlare di professori precari in tv. Il triste destino di ben 300000 lavoratori ignorati dall'opinione pubblica.

Mi ha fatto piacere, oggi, nella rubrica "l'indignato speciale" del tg 1, vedere che si è parlato di professori precari.

Si è trattato ovviamente di un piacere amaro. 300000 lavoratori che fanno funzionare la scuola pubblica e che vengono ignobilmente ignorati da tutto e da tutti. Si tratta di coloro che insegnano a beneficio DEI NOSTRI FIGLI!

In questo clima di elezioni, sotto il silenzio più totale, si sta consumando una delle più orrende tragedie che abbiano colpito la scuola italiana: il piano (già approvato in Finanziaria) di 150000 immissioni in ruolo, che dovevano essere effettuate nel triennio 2007 - 2009, sta per essere TAGLIATO!

Nel 2007 era stata, per la verità, effettuata una prima tranche di immissioni in ruolo di 50000 unità. Per il 2008 e per il 2009 dovevano essere effettuate di nuovo 50000 immissioni per ciascun anno.

Invece nel 2008 saranno probabilmente solo 25000 e, per il prossimo anno, con un nuovo governo, non si sa nemmeno se si faranno!

Con questo finiscono nella tazza del water le speranze di ben 75000 (dico 75000!) precari che in questo triennio speravano di trovare una stabilizzazione del proprio lavoro.

Complice di questa terribile defalcazione è il numero bassissimo di pensionamenti nella scuola (solo 19000) e un piano di tagli alle spese indiscriminato!

Negli ultimi giorni si sono susseguiti vari comunicati che mostrano come tra il ministro della Pubblica Istruzione Fioroni e il Ministro del Tesoro, Tomaso Padoa Schioppa, c'è stato un teso dibattito sulla fattibilità del piano triennale di assunzioni.

Fioroni, per parte sua, ha chiesto di realizzare le 50000 assunzioni promesse almeno per quest'anno, ma dal Ministero del Tesoro è giunto il veto che ha portato addirittura al dimezzamento delle assunzioni.

In attesa che le organizzazioni sindacali si muovano per scongiurare questo enorme danno alla scuola e agli alunni, che resterebbero con la piaga di insegnanti che cambiano anche più volte durante l'anno, vi lascio alcuni link (tra le più importanti testate giornalistiche) che documentano la situazione:

 

http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HQ5IN&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1


http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HQ5TY&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1


http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HQ60O&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1


http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HQ4QJ&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1


http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HQ4QX&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1


http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HQAFV&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1


http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HQ9TR&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1


http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HQA3E&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1


http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HQ9B9&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1


http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HQCYS&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1


http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HQ7I5&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

 

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>> Perché le persone vogliono guadagnare su Internet?

>> Le immagini da satellite mostrano le violenze nel Myanmar (Birmania).

martedì 8 aprile 2008

A che velocità cade un meteorite?

Nelle limpide e calde notti d'estate capita spesso di vedere delle stelle cadenti, soprattutto nella prima metà di agosto (il 10 agosto c'è il massimo del famoso sciame delle Perseidi). Il loro percorso nel cielo stellato ci appare fulmineo. A molti sarà capitato di pensare: ma che velocità poteva avere?

La velocità di caduta di un meteorite può essere molto variabile, perché dipende da molti fattori. Il primo di questi fattori è l'orbita del meteorite. Da questo punto di vista si può andare da una velocità minima di 11 Km/s (corrispondenti a 39600 Km/h), fino ad un massimo di 70 Km/s (252000 Km/h). La velocità media si attesterebbe però intorno ai 20 Km/s.

Appena il meteorite entra a contatto dell'atmosfera terrestre rallenta vistosamente. Dopo l'ingresso in atmosfera ciò che determina la velocità è la massa del meteorite e la sua composizione chimica.

Un meteorite molto grande viene rallentato poco dall'atmosfera. Ad esempio un oggetto della massa di 100 tonnellate arriva a dimezzare la propria velocità di ingresso nell'atmosfera. Un simile meteorite non si consuma completamente per attrito con l'aria e arriverà a cadere al suolo producendo un cratere.

Dobbiamo pensare al fatto che l'atmosfera è uno schermo selettivo che impedisce ai meteoriti più piccoli di colpire la superficie. Se non ci fosse l'atmosfera verremmo frequentemente colpiti da proiettili di dimensioni variabili dalla grandezza di un granello di sabbia fino a dieci centimetri di diametro che arrivano con una velocità media di oltre 70000 chilometri orari!

A causa dell'atmosfera quindi, i granelli di roccia più sottili (polveri submillimetriche) possono cadere a velocità anche di pochi metri al secondo.

L'ultimo parametro da considerare, come si diceva prima, è la composizione chimica. Da questo punto di vista le meteoriti vengono divise in tre grandi famiglie: quelle rocciose, composte principalmente da silicati; quelle ferrose che sono composte per lo più da ferro-nickel e quelle miste o ferro-rocciose che contengono sia metallo che roccia.

Le meteoriti rocciose si consumano velocemente in atmosfera, diventano rapidamente sempre più piccole e rallentano vistosamente. E' ovvio che questo non avviene per quelle ferrose, che difficilmente si consumano e quindi mantengono un'alta velocità di impatto.

 

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Una delle immagini più tristi che abbia mai visto.

Questo gattino non sa parlare, ma l'immagine spiega tutto. La condizione umana, in certi luoghi della Terra, non è dissimile dalla sua.

 

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lunedì 7 aprile 2008

Saturno? No, Urano (immagine astronomica)

Questa immagine di un pianeta con anelli non è di Saturno, ma si tratta del pianeta Urano, ripreso dal Telescopio Spaziale Hubble. L'immagine è in falsi colori e le varie tonalità indicano l'altezza. Le regioni verdi e blu mostrano le zone in cui l'atmosfera è più trasparente e quindi dove la luce solare riesce a penetrare più in profondità. Quelle gialle e grigie indicano uno strato di nubi che riflette la luce solare. Arancione e rosso indicano invece nubi molto alte, simili ai cirri sulla Terra.

Il sistema di anelli di Urano fu scoperto per puro caso il 10 marzo 1977 da James L. Elliot, Edward W. Dunham e Douglas J. Mink, mentre osservavano una rara occultazione di una stella da parte del pianeta

 

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>> La montagna che si vede in questa foto è un miraggio.

>> Una incredibile "fotografia" alta ben 3 metri. L'autore per realizzarla ha usato una semplice penna a sfera!

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Orione e le piramidi di Giza. C'è davvero una correlazione?

Secondo alcuni autori (Robert Bauval e Gilbert Adrian G.) le tre piramidi di Giza avrebbero una disposizione sul terreno che ricalcherebbe la disposizione in cielo della "cintura di Orione, un asterisma composto da tre luminose stelle della costellazione di Orione. I nomi delle tre stelle sono: Alnilam, Alnitak e Mintaka.

In questo articolo desidero far notare che questa correlazione in realtà non esiste affatto e che gli autori che l'hanno ipotizzata hanno commesso una vera e propria forzatura facendo un uso molto "ad hoc" delle immagini delle piramidi e della stelle della cintura di Orione.

Come prima cosa osserviamo l'immagine che viene presentata da Robert Bauval, nel suo libro The Orion Mistery:

La correlazione sembra perfetta. Ma si tratta di un vero e proprio inganno dei nostri occhi. Infatti notiamo una cosa importante: l'immagine della cintura è di scarsa qualità e le stelle appaiono con immagini di diffrazione esageratamente allargate. A questo punto occorre trovare un'immagine migliore, come ad esempio questa (le immagini delle stelle sono molto più puntiformi):

CinturaOrionea

E la sovrapponiamo sull'immagine delle piramidi viste dall'alto:

Piramidi e Orione 1

Ottenendo questa immagine:

CinturaOrione

Come si può osservare facilmente le due stelle più luminose sono state fatte coincidere con la cima delle prime due piramidi a partire dal basso. Si vede subito che la terza stella non coincide affatto con la terza piramide in alto a destra. Questo risultato si è ottenuto perché non abbiamo "barato" con le immagini e abbiamo sovrapposto una foto delle stelle in cui queste appaiono abbastanza puntiformi.

Naturalmente esiste anche la possibilità che le stelle si siano spostate nel tempo. La datazione più accreditata delle piramidi di Giza le fa risalire tra il 2400 e il 2600 a.C. Se le stelle avessero un moto proprio sufficientemente elevato, in questi 4400 anni si sarebbero potute muovere di una quantità non trascurabile. Pertanto si potrebbe concludere che le stelle non coincidono nel presente, ma nel passato, nell'epoca della costruzione, la loro disposizione era perfettamente coincidente con quelle delle piramidi.

Allora facciamo subito un controllo: colleghiamoci con queste pagine:

http://www.alcyone-software.com/SIT/mainstars/SIT000640.htm (Mintaka)

http://www.alcyone-software.com/SIT/mainstars/SIT000642.htm (Alnilam)

http://www.alcyone.de/SIT/doubles/SIT003386.htm (Alnitak)

e osserviamo che il moto proprio delle tre stelle è intorno a 0,001 o 0,002 secondi d'arco all'anno. Quindi in questi millenni si sarebbero spostate di una quantità massima di 8 secondi d'arco: uno spostamento assolutamente inapprezzabile nelle foto mostrate. Anche se le piramidi risalissero al 10000 a.C. (come altri pseudoscienziati sostengono), lo spostamento di 20 secondi d'arco non spiegherebbe affatto la discrepanza osservata.

Si deve concludere quindi che non esiste nessun legame tra la disposizione delle stelle della cintura di Orione e quella delle piramidi. Oppure, se c'è un legame, questo non è stato, volutamente, reso in scala perfetta, perché la discrepanza è troppo elevata per essere spiegata da un errore di costruzione delle piramidi. Questo si può affermare con sicurezza, visto che gli antichi egizi erano estremamente precisi nella costruzione dei loro monumenti.

 

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>> La sola vista del dolci manda il cervello in tilt. Com'è vero!!!!!

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Space X Starship: il nuovo tentativo di lancio del 18 novembre 2023.

Vediamo un frammento della diretta del lancio dello Starship del 18 noembre 2023. Il Booster 9, il primo stadio del razzo, esplode poco dopo...