Quando comincia il tempo e quando finisce? Dove comincia lo spazio e dove finisce? Quanto è grande l’Universo? Queste sono domande che ci strappano per un istante dai problemi della quotidianità e in un rapidissimo istante ci trasportano come per magia ai vertiginosi confini del pensiero umano. Si ha quasi l’impressione che lo spazio e il tempo non possano avere né un’origine né una fine. Per questo possiamo convincerci che siano cose che richiamano alla mente l’evanescente concetto di infinito. A questo punto chiediamoci: cos’è l’infinito? Leopardi avrebbe risposto così:
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Si veda con che lucidità Leopardi definisce il nascere della sensazione dell’Infinito. In realtà egli ha una concezione dell’Infinito che deriva direttamente da quella dei filosofi dell’antica Grecia. È il concetto dell’Infinito Potenziale. Esso si ottiene aggiungendo sempre qualcosa all’ultima enorme grandissima cosa già concepita: limite che non tocca mai l’Infinito, ma che ad esso si avvicina tanto quanto si vuole. È l’idea dominante di Aristotele (IV sec. a.C.): egli lo immaginava come un numero enorme. Pur grande, grandissimo, è sempre possibile aggiungere ad esso un altro numero. L’Infinito Potenziale è quindi sempre al di sotto dell’Infinito. Nel III sec. a.C. anche Archimede si occupa del problema dell’Infinito.
Il grande pensatore siciliano ha un approccio davvero interessante con questo concetto: egli dà il primo esempio concreto di calcolo in cui il numero di cose realmente esistenti, anche se molto piccole, come lo sono i granelli di sabbia, non può essere Infinito. Archimede, facendo uso delle dimensioni che Aristarco attribuiva alla sfera della stelle fisse, calcolò il numero dei granelli di sabbia che potevano essere contenuti in quella sfera, dimostrando che esso doveva certamente essere finito.
È la prima volta che il concetto matematico di Infinito viene messo a confronto con la realtà fisica delle cose, e questa è una occasione che, come vedremo, si ripresenterà ancora nella storia del pensiero umano. In ogni caso Archimede stabilisce che l’Infinito è assolutamente estraneo alla realtà concreta, mettendo in evidenza il suo carattere necessariamente astratto. Nel nostro ambiente reale, niente può essere Infinito.
Nel 1638, Bonaventura Cavalieri, allievo di Galileo Galilei, si accorse che con l’Infinito sembra avvenire una cosa molto strana: una parte e il tutto sono equivalenti! Lo stesso Galileo affrontò il problema lavorando con i quadrati dei numeri interi. Il grande scienziato, fondatore del metodo scientifico, si accorse che essi sono altrettanto numerosi dei numeri interi, anche se di essi sono solo una parte. La cosa è davvero curiosa: come può essere che, giocando con l’Infinito, una parte è uguale al tutto? Infine Galileo sulla questione getta la spugna, affermando che la mente umana è limitata, quindi non potrà mai capire l’Infinito.
Il problema viene ripreso molto più tardi da Georg Cantor, facendo uso del concetto dell’Infinito Attuale. L’Infinito Attuale non viene concepito come qualcosa a cui si tende, ma a qualcosa che è già esistente, esso è quindi al di sopra di qualsiasi Infinito Potenziale. Grazie a ciò, nel 1873 è proprio Cantor che ci pone di fronte a qualcosa di veramente rivoluzionario: non esiste un solo livello di Infinito, ma ne esistono Infiniti!
Vediamo di spiegare meglio il concetto. Esiste l’infinito dei numeri interi (0, 1, 2, 3, 4,…). Ma sappiamo che questi non sono tutti i numeri possibili. Esistono anche i numeri reali, che sono quelli (per dare una descrizione molto semplicistica) con una o più cifre dopo la virgola (es: 1,33; 7,45678, 1,2289…). Anche questi numeri sono infiniti. Ebbene, Cantor riuscì a dimostrare che l’Infinito dei numeri interi è più piccolo dell’Infinito dei numeri reali. Egli non parlava ovviamente della grandezza nel senso che noi gli attribuiamo solitamente, visto che si trattava di insiemi infiniti di numeri. Cantor infatti indicava quello che noi chiameremmo grandezza di un insieme di numeri con il nome di potenza. Battezzò la potenza dei numeri interi con il nome di aleph-zero (aleph è la prima lettera dell’alfabeto ebraico), e con aleph-uno la potenza dei numeri reali. Insiemi ancora più potenti sono indicati come aleph-due, aleph-tre e così via. Quindi l’insieme dei numeri reali è più potente di quello dei numeri interi. Nessuno si era prima sognato di pensare a una cosa del genere, e cioè che potessero esistere diversi livelli di infinito. Le geniali intuizioni e dimostrazioni di Cantor furono approfondite da altri matematici nei decenni successivi e anche in tutto il XX secolo, estendendone i confini a concetti sempre più rivoluzionari.
Ovviamente l’Infinito dell’astrazione matematica, anche se ci affascina lasciandoci intravedere orizzonti sconfinati, non può esaurire l’argomento in questione. A noi interessa sapere una cosa altrettanto importante: esiste l’Infinito in natura? Archimede aveva già mostrato che esso non può esistere. Persino i granelli di sabbia, pur essendo in numero enorme, non sono infiniti.
Un’altra interessante argomentazione contro l’esistenza dell’Infinito in natura è quella che emerge nel Paradosso di Olbers (1826). Se l’Universo fosse Infinito e se ci fossero Infinite stelle distribuite in ogni regione dello spazio, affermava l’astronomo tedesco Olbers, il cielo di notte sicuramente non potrebbe essere nero!
Infatti se noi immaginiamo di tracciare una linea visuale che parte dalla Terra e attraversa lo spazio in una direzione qualsiasi, essa, prima o poi, dovrà incontrare una stella, visto che le stelle sono infinite. Da questo ragionamento si deduce che non ci dovrebbe essere una sola microscopica area del cielo in cui non si vedrebbe una stella; il cielo pertanto dovrebbe essere luminosissimo, visto che la luminosità superficiale delle stelle è molto alta.
Occorre dire che al tempo in cui Olbers formulò il suo ragionamento non si aveva conoscenza dell’esistenza di galassie, quasar e altri oggetti celesti, scoperti molto più recentemente. Questo però non inficia la validità delle argomentazioni. Ben altre osservazioni hanno poi confermato ciò che Olbers non poteva dimostrare se non solo con il suo astruso ragionamento.
Negli ultimi decenni, dopo le grandi scoperte della Fisica riguardanti la Teoria della Relatività e della Meccanica Quantistica, c’è una decisa tendenza alla assoluta esclusione dell’esistenza dell’Infinito in natura. Secondo l’ipotesi del Big Bang l’Universo sarebbe nato circa 15 miliardi di anni fa. Nessuno è in grado di affermare però se avrà una fine nel tempo e se, dopo questo inizio, continuerà ad esistere per sempre. Decine, se non centinaia, di congetture sono state elaborate dai fisici teorici negli ultimi decenni, ma nessuna ha mai avuto l’onore di essere stata confermata sperimentalmente.
La finitezza dell’Universo ha sempre messo a disagio filosofi e scienziati. Il filosofo greco Lucrezio pensava di poter dimostrare l’infinità dello spazio con questa argomentazione: se lo spazio è finito, ha un limite. Poniamo che qualcuno vada fino a questa ultima Thule e getti un dardo in avanti. O il dardo vola al di là del limite, oppure qualcosa lo fermerà, qualcosa che deve trovarsi a sua volta al di là del limite. Questa dimostrazione può essere ripetuta un qualsiasi numero di volte per spingere all’indietro il presunto limite all’Infinito.
Ma il ragionamento di Lucrezio, anche se apparentemente ineccepibile, viene completamente superato dalla teoria della Relatività Generale (Einstein, 1926). Secondo la visione relativistica lo spazio dovrebbe essere simile ad una sfera a quattro dimensioni (ipersfera). Una tale struttura, anche se impossibile da concepire mentalmente, chiarisce per quale motivo lo spazio, seppur finito, non ha confini. Per capirlo facciamo un esempio. Supponiamo di camminare sulla superficie (quindi a due dimensioni) di una normale sfera (a tre dimensioni) non infinita. È chiaro che possiamo camminare sulla superficie della sfera quanto vogliamo: non troveremo mai un confine! Perché non esiste un punto in cui la superficie della sfera finisce. La stessa cosa avviene nella sfera a quattro dimensioni: se ci muoviamo nello spazio a tre dimensioni, non troveremo mai un confine. Quindi si conclude che lo spazio e il tempo, seppur finiti, sarebbero illimitati. Ancora una volta l’Infinito viene abolito dalla visione della realtà concreta.
Sembra proprio che il processo di astrazione matematica ci porti allora ad esplorare nuovi mondi lontani, disgiunti dal mondo reale, ma che sembrano assumere una realtà propria, quasi a voler tradurre in realtà le parole di Platone (Repubblica – 511): “… procedere dalle idee stesse alle idee, attraverso le idee, per finire alle idee”.
(Bibliografia:
Antonino Zichichi, “L’INFINITO – L’avventura di un’idea straordinaria”, Nuove Pratiche Editrice, Milano 1998.
William Poundstone, "Labirinti della ragione", Edizione Club, 1991)
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