In questo post mi propongo di spiegare il principio di indeterminazione di Heisenberg, le cui conseguenze hanno profondamente modificato sia alcune convinzioni sulla natura dei fenomeni e sul significato stesso delle leggi fisiche utilizzate per interpretarli, sia il ruolo dell'osservatore nella teoria della misura.
Conoscere significa misurare, misurare significa perturbare
Ogni grandezza fisica deve essere sempre suscettibile di una definizione operativa, nel senso che deve essere sempre possibile, mediante un'osservazione o un'esperienza, misurare la grandezza considerata.
Nella fisica classica si era sempre supposto che, entro i limiti degli errori, la misura di una grandezza poteva essere eseguita con precisione sempre più rigorosa, a condizione di utilizzare un dispositivo sempre più qualificato e una tecnica sempre più razionale.
In realtà ciò non è esatto: misurare significa sempre perturbare il sistema e quindi anche le grandezze che lo caratterizzano.
Supponiamo, per esempio, di voler stabilire la posizione di un oggetto in movimento. Per far ciò dobbiamo osservarlo. Per vederlo o per individuarne l'esistenza dobbiamo fare arrivare sul corpo un fascio di luce o qualche opportuna e adatta radiazione.
Esiste dunque fra l'oggetto e lo strumento di misura uno stato correlato che si estrinseca in uno scambio energetico, in generale in un'interazione, che tende a modificare qualche grandezza cinematica dell'oggetto. Da ciò discende in modo inequivocabile che "conoscere" significa "misurare" e "misurare" significa "perturbare".
Logicamente, l'andamento del processo perturbativo dipende, oltre che dai metodi di osservazione, anche e soprattutto dal tipo di sistema che si vuole studiare. Per esempio, facendo arrivare un fascetto luminoso su una palla da biliardo in movimento possiamo osservare e quindi studiare il suo moto, senza che le grandezze impulso, energia, ecc., associate al pennello di luce, influenzino il moto della palla: sono infatti trascurabili rispetto ai valori delle entità fisiche che caratterizzano l'oggetto.
Ripetendo invece la stessa esperienza con un elettrone che si muove in un tubo a vuoto, per le ridotte dimensioni del corpuscolo, alcune grandezze geometrico-cinematiche della particella verranno così perturbate che i mutamenti introdotti non potranno più essere trascurati. L'agente usato nella misura (concettualmente almeno un fotone) è ora altrettanto grande quanto l'oggetto che misuriamo, né possiamo concepire, per effettuare la misura, un mezzo che sia più piccolo del fotone. In altre parole, non si può definire un elettrone indipendentemente dal dispositivo utilizzato per dimostrare l'esistenza stessa della particella.
Partendo da queste premesse, Heisenberg stabilì un principio la cui portata può essere paragonata a quella indotta dai principi della meccanica classica.
Relazione di Heisenberg
La relazione di indeterminazione di Heisenberg sancisce l'impossibilità di valutare in modo rigoroso e senza alcun limite quelle grandezze la cui determinazione simultanea si rende necessaria per una descrizione meccanicistica del sistema.
Anche con metodi di misura perfezionati all'infinito, la determinazione simultanea di due grandezze coniugate fra loro, come, per esempio, la posizione di una particella e la quantità di moto, la sua energia e l'intervallo di tempo in cui la prima è determinata, sono sempre stabilite con una certa indeterminazione.
Come è stato mostrato da Heisenberg, ogni qualvolta vogliamo determinare, mediante una osservazione contemporanea, la posizione e l'impulso di un corpuscolo, le rispettive incertezze e delle due grandezze sono legate dalla relazione:
(1)
Un'altra forma del principio di indeterminazione, sempre insita nella natura fisica delle particelle, è la seguente:
(2)
dove E è l'energia e l'intervallo di tempo in cui la E viene determinata.
È bene subito precisare che le relazioni d'indeterminazione (1) e (2) rappresentano delle medie statistiche i cui valori derivano da un elevato numero di misure delle grandezze coniugate. L'indeterminazione è, infatti, significativa solo se le misure vengono ripetute più volte.
Riprendiamo l’esempio dello studio del moto di un elettrone. Per poter definire lo stato della particella in un dato istante, dobbiamo determinare simultaneamente la posizione e l'impulso, per esempio, come abbiamo già detto, facendo arrivare sulla particella una radiazione di lunghezza d'onda almeno paragonabile con le dimensioni atomiche.
Utilizzando una radiazione di piccola lunghezza d'onda, cioè con elevata frequenza, possiamo determinare in modo sufficientemente rigoroso la posizione x (consideriamo una sola coordinata dell'elettrone).
Nello stesso tempo, però, la radiazione incidente, interagendo per effetto Compton con l'elettrone, fa variare in modo imprevedibile la velocità e quindi l'impulso p, così che la relativa indeterminazione risulta tanto più forte quanto più esatta è la misura della posizione.
Per evitare o ridurre l'effetto Compton, cioè allo scopo di rendere minima la perturbazione sul moto dell'elettrone, possiamo utilizzare una radiazione di piccola frequenza. Però, essendo in tali condizioni la lunghezza d'onda molto grande, a causa degli inevitabili e marcati fenomeni di diffrazione, non possiamo più rilevare con esattezza la posizione della particella.
Conseguentemente, se si vuole rendere piccolo , necessariamente aumenta e viceversa, sicché, quanto più si cerca di migliorare la precisione di una delle due grandezze coniugate. tanto più aumenta l'imprecisione sull'altra.
Per le formule precedenti il prodotto delle due indeterminazioni non può mai essere minore della costante h di Planck. Al limite, se potessimo conoscere con precisione l'impulso di una particella, essendo avremmo , senza perciò alcuna possibilità di conoscere la posizione.
C'è ovviamente da domandarsi come mai con tutte le innumerevoli esperienze effettuate nella meccanica classica non si è mai evidenziata una indeterminazione del genere?
La risposta è direttamente connessa con la presenza della costante di Planck e con le dimensioni relative dei fenomeni e degli oggetti che si considerano.
Per la profonda coerenza della teoria quantistica, le relazioni di Heisenberg sono valide per ogni fenomeno che avviene in natura e quindi anche nel moto di un oggetto macroscopico. Solo che in questo caso il margine di incertezza, in relazione con il valore della costante h, è così piccolo che appare trascurabile di fronte quello che deriva dagli errori sperimentali delle misure.
Così, per esempio, nell'ipotesi di poter misurare l'impulso di una palla da tennis di massa 600 g e velocità 10 m/s con un errore relativo , il principio di indeterminazione nella forma espressa dalla (1) porta una indeterminazione della posizione dell'ordine di 10-31 m, valore del tutto trascurabile rispetto all'errore di misura.
Si deduce che non è facile, o meglio è quasi impossibile, evidenziare qualche effetto quantistico analizzando direttamente un fenomeno macroscopico.
In base alle considerazioni insite nella meccanica quantistica, una particella si trova "contemporaneamente" in ogni punto dell'onda a essa associata, la particella cioè è distribuita con differente probabilità in tutto lo spazio in cui l'onda è presente.
Per quanto riguarda la velocità, una particella in moto possiede una ben determinata velocità solo quando si effettua una sua misura, poiché prima essa è "contemporaneamente" caratterizzata da un insieme di velocità, ognuna delle quali con una propria probabilità di essere osservata.
Questo nuovo aspetto non solo segna la fine dell'ambizioso sogno del determinismo laplaciano, ma anche la fine dell'oggettività classica. L'apparato logico matematico del principio di Heisenberg è una diretta conseguenza dell'ambiguo dualismo onda-corpuscolo che affligge soprattutto gli oggetti del mondo microscopico.
In fondo, più che una legge epistemologica, l'indeterminazione è insita nella natura delle cose.
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