lunedì 20 febbraio 2012

Elettricità statica: alcuni esperimenti (video)

Lo sapevate che l’elettricità può “piegare” una fiamma? In questo video possiamo vedere alcuni interessanti (e anche divertenti) esperimenti sull’elettricità statica. Con una macchina in grado di creare cariche elettriche (macchina di Wimshurst), in studio viene spiegata l’origine della carica elettrica. Lo sapevate che affinché si manifestino tutti i fenomeni legati all’elettricità statica è necessario che ci sia aria secca? Infatti quando c’è aria secca possiamo prendere la scossa semplicemente dando la mano a qualcuno che, possibilmente, indossa scarpe con suola di gomma (che fa da isolante), oppure un pullover di lana che sfrega su tessuti sintetici. La cosa più frequente che ci capita è di prendere la scossa quando tocchiamo lo sportello di un’auto.

Nel servizio si parla anche delle pile elettriche e della bottiglia di Leida che fu il primo dispositivo che serviva ad accumulare la carica elettrica. Si vedrà anche come è fatta una bottiglia di Leida. Avete mai visto una bottiglia di Leida caricata con una differenza di potenziale di oltre 100000 volt?

Nel seguente filmato potrete vedere tutti questi semplici ed affascinanti esperimenti. Sono 16 minuti di spiegazioni e di esperimenti sull’elettricità statica che non potete perdere!

Buona visione a tutti.


sabato 18 febbraio 2012

Le auto elettriche sono inquinanti!

Le auto elettriche sono davvero così ecologiche come si crede? Gli ambientalisti, in particolare quelli di Greenpeace, affermano che le auto elettriche non sono affatto ecologiche e potrebbero persino aumentare le emissioni di CO2 esattamente come fanno le auto “normali” che utilizzano carburanti derivati dal petrolio.

Da dove viene questa affermazione? Ha una sua validità?

Partiamo dall’evidenza che un’auto elettrica non produce gas di scarico, quindi sicuramente è in grado di abbattere le emissioni di CO2 in un ambiente cittadino. I guai vengono quando andiamo ad analizzare l’origine che ha la corrente elettrica che usiamo per ricaricare le sue batterie. Questa corrente elettrica infatti proviene dalle normali centrali che la producono mediante combustibili fossili.

Secondo alcuni calcoli si può stimare che un aumento del 10% delle auto elettriche in Europa, porterebbe ad un aumento del 20% delle emissioni di CO2 del settore.

Una “veraauto elettrica, realmente ad emissioni zero, si dovrebbe invece alimentare con fonti rinnovabili. Se si utilizza un’auto elettrica, quindi, la corrente che ricarica le batterie dovrebbe venire, ad esempio, da un impianto con pannelli solari. Se si incrementasse in maniera massiccia la produzione energetica attraverso fonti rinnovabili, si potrebbe usare questa energia anche per l’alimentazione delle auto elettriche, in questo modo l’intera catena di produzione energetica sarebbe ecocompatibile.

Per saperne di più, potete guardare questo filmato dedicato proprio alle auto elettriche che risultano in realtà ben poco ecocompatibili. Buona visione del video.


venerdì 17 febbraio 2012

Batterie al litio innovative

Le batterie al litio possono essere utilizzate nel dispositivi portatili  perché permettono una lunga durata. Il ricercatore dell’ENEA Giovanni Battista Appetecchi ci fa vedere come assemblare una batteria innovativa basata sul litio.

Nel seguente filmato possiamo vedere alcune cose molto interessanti sulle batterie al litio, sul loro livello di sicurezza e di quali sono gli sviluppi per il futuro per questo tipo di energia portatile.

Buona visione a tutti.


giovedì 16 febbraio 2012

La teoria delle stringhe (con qualche formula)

Sappiamo che la teoria delle stringhe è una delle teorie della Fisica più interessanti (e controverse) degli ultimi decenni. In realtà avrebbe la “presunzione” di essere una “teoria del tutto”, cioè una teoria in grado di unificare tutte le principali teorie della Fisica attualmente accettate e quindi dovrebbe essere in grado di descrivere tutti i fenomeni fisici della Natura.

L’ipotesi da cui si parte è che le particelle come gli elettroni, i protoni o i neutroni (e tutte le altre particelle conosciute) non sono dei “punti”, ma delle “cordicelle” vibranti, ma sono così piccole e sottili che le vediamo come se fossero perfettamente puntiformi.

Ma in che cosa consistono esattamente queste stringhe?

Andiamo un bel po’ indietro nel tempo. Si suole dire che Pitagora sia stato il primo teorico delle stringhe della storia. Pitagora, che era un eccellente suonatore di lira, fu il primo a scoprire le relazioni armoniche delle corde che vibrano. Ovviamente si trattava di corde di strumenti musicali, ma la sua intuizione ha influenzato il pensiero occidentale in maniera profonda, perché mise in evidenza come la natura e la matematica sono intimamente connesse. In realtà Pitagora non usò la lira, ma uno strumento molto più semplice, chiamato “monocorde”, costituito da una sola corda tirata su una struttura in legno. In questo modo scoprì che se una corda viene divisa in due parti, la nota che essa produce è di un’ottava più alta della nota prodotta dalla corda intera. Se viene divisa in 3 parti uguali, la corda vibra in un rapporto di 3 a 1, e così via. Sembra che abbia detto: “studiate il monocorde e scoprirete i segreti dell’Universo”.

Forse la sua affermazione è esagerata, ma molti fisici teorici moderni lo hanno preso seriamente in parola!

Nei tempi moderni la matematica ci permette di descrivere l’oscillazione di una corda tesa in maniera molto più efficace e dettagliata.


Se la corda è descritta come nel grafico sopra, con l’ampiezza di oscillazione che si sviluppa nell’asse y (x è la lunghezza della corda), la sua equazione si può scrivere nel modo seguente:

dove t è il tempo e v è la velocità con cui si propaga l’onda nella corda.

Quando si risolve questa equazione bisogna considerare le “condizioni al contorno”. Ad esempio bisogna specificare che la corda è fissata in entrambi i suoi estremi e che ha una lunghezza L che non si può “stirare”.

La soluzione generale della precedente equazione può essere scritta come una somma di “modi normali”, indicati dal numero intero n, in questo modo:

La condizione per avere un modo normale è che la lunghezza dell’onda sia una frazione intera del doppio della lunghezza della corda, quindi che sia:

La frequenza dei modi normali è data da:

I modi normali sono quelli che noi percepiremmo come “note”. Si deve notare come la velocità dell’onda sulla corda aumenta all’aumentare della tensione della corda, quindi aumenterà pure la frequenza normale. E’ per questo motivo che la corda di una chitarra produce una nota più alta quando la corda stessa è più serrata.

Quella che è stata descritta finora è una corda non relativistica, in cui le onde si propagano a velocità molto più basse di quella della luce.

Ma come si fa a descrivere matematicamente quella che adesso possiamo chiamare “stringa relativistica”? Secondo la teoria della relatività di Einstein dovremmo scrivere un’equazione relativistica che deve essere invariante per le trasformazioni di Lorentz. Per fare ciò dobbiamo immaginare che la stringa si muova su una superficie di spazio-tempo, detta “superficie di universo”. Nella stringa non relativistica (che abbiamo chiamato semplicemente corda) c’era una netta differenza tra le coordinate spaziali e quella temporale. In una teoria di stringa relativistica dobbiamo considerare la superficie di universo della stringa come uno spazio bidimensionale dove la divisione tra spazio e tempo dipende dall’osservatore.

L’equazione della stringa relativistica si può scrivere così:

dove σ e τ sono le coordinate della superficie di universo e rappresentano lo spazio e il tempo. Il parametro c2 invece rappresenta il rapporto tra la tensione di stringa e la sua massa per unità di lunghezza.

Queste equazioni del moto possono essere derivate dalle equazioni di Eulero-Lagrange in base all’azione sulla superficie di universo della stringa:

Le coordinate spaziotemporali Xµ della stringa in questa rappresentazione sono anche i campi Xµ in una teoria dei campi bidimensionale definita sulla superficie che la stringa “spazza” mentre viaggia nello spazio-tempo. Le derivate parziali sono rispetto alle coordinate σ e τ della superficie di universo e hmn è la metrica bidimensionale definita sulla superficie di universo della stringa.

La soluzione generale dell’equazione di stringa relativistica appare molto simile al caso dell’equazione non relativistica vista in precedenza. Otteniamo questa espansione in serie di modi normali:

La soluzione qui sopra è ben diversa da quella di una corda di chitarra, nel senso che la stringa non è legata ad entrambi gli estremi ed è libera di oscillare nella superficie di universo. La stringa descritta dal quella equazione è una stringa aperta i cui estremi sono liberi.

Per una stringa chiusa le condizioni al contorno sono periodiche e le soluzioni assomigliano a due soluzioni di stringa aperta che si muovono in direzione opposta. Queste due modalità di stringa chiusa vengono chiamate left-movers e right-movers e le differenze tra queste modalità sono molto importanti per definire la teoria delle superstringhe eterotiche.

Stringa aperta e stringa chiusa

Finora abbiamo considerato l’equazione di una stringa e l’abbiamo scritta in modo tale che fosse compatibile con la teoria della Relatività. Ma non abbiamo affatto finito. Siccome stiamo ipotizzando che le stringhe sono oggetti di dimensioni inferiori a quelle degli atomi e anche delle particelle elementari, è ragionevole supporre che la teoria delle stringhe debba essere compatibile anche con la meccanica quantistica.

Ciò significa che per le nostre equazioni di stringa devono esserci anche altri vincoli e cioè devono rispettare le relazioni di commutazione quantistiche.

I modi di oscillazione quantizzati della stringa forniscono una rappresentazione del cosiddetto gruppo di Poincaré, attraverso il quale gli stati quantici di massa e di spin sono classificati in una teoria quantistica e relativistica dei campi.

Ecco cosa sono le particelle elementari nella teoria delle stringhe: sono come le note armoniche suonate da una corda a tensione fissa.

dove il parametro α’ è detto parametro di stringa e la sua radice quadrata rappresenta la scala di dimensione approssimata in cui gli effetti della stringa diventano osservabili.

Il problema della quantizzazione delle stringhe non è esente da guai. Nelle equazioni infatti compaiono soluzioni a “norma” negativa, che quindi non hanno alcun significato fisico (è come se avessero probabilità negativa) e vengono chiamati ghosts (fantasmi). La cosa più stupefacente è che questi ghosts scompaiono completamente dalle equazioni quando le dimensioni dello spazio tempo sono maggiori o uguali a 26!

Per il momento ci fermiamo qui, nel prossimo post scriverò delle dimensioni extra della teoria delle stringhe e di come queste dimensioni si riducano a 10 se imponiamo alle equazioni anche il vincolo di essere compatibili con la supersimmetria (teorie delle superstringhe). Inoltre vedremo anche che le teorie delle superstringhe sono 5 ma forse sono manifestazioni diverse di un’unica, sconosciuta, teoria, detta Teoria M. Vedremo che natura hanno le dimensioni extra della teoria delle stringhe e perché non le possiamo percepire con i nostri sensi (e nemmeno con i più potenti strumenti a nostra disposizione). Faremo un breve viaggio tra strutture affascinanti come le brane e illustrerò il controverso “principio olografico”.

Se questa lettura finora vi ha affascinati, potete andare subito a leggere la seconda parte. Occhiolino


Il laser

Un atomo può emettere un fotone con un meccanismo piuttosto facile da capire. Un elettrone, che si trova in uno stato di energia E1 riceve energia dall’esterno (per esempio mediante un urto o assorbendo un fotone), in questo modo può portarsi in un altro stato, a cui compete l’energia E2 > E1. A questo punto l’elettrone può ritornare spontaneamente allo stato di partenza (o a un altro stato di energia inferiore), emettendo un fotone di energia hf, dove f è la frequenza (h è la costante di Planck), tale da conservare l’energia totale:

hf = E2 – E1

Di solito l’elettrone rimane nello stato di energia superiore per un intervallo di tempo dell’ordine di 10-8 secondi. Esistono però casi in cui la durata di tale permanenza può allungarsi fino a 10-3 secondi. Quando ciò accade si dice che lo stato di energia E2 è metastabile, cioè quasi stabile.

(Lo schema di funzionamento di un laser a rubino)

 

L’emissione stimolata

I fotoni hanno spin 1 e quindi seguono la statistica di Bose-Einstein. Ciò li distingue dai fermioni, per i quali vale il principio di esclusione di Pauli, secondo cui non è possibile trovare due particelle fermioniche identiche (cioè due particelle dello stesso tipo con gli stessi numeri quantici). Per i bosoni vale la proprietà opposta: essi tendono ad avere tutti le stesse caratteristiche. Così, se un elettrone si trova nello stato atomico di energia E2, la presenza nelle sue vicinanze di un fotone che ha proprio la frequenza f data dalla formula precedente, provoca la ricaduta dell’elettrone stesso nello stato E1, con l’emissione di un nuovo fotone che è del tutto identico a quello che era già presente. Questo fenomeno è detto emissione stimolata.

 

Il Laser

Nel laser (acronimo di Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation, cioè “amplificazione della luce mediante l’emissione stimolata di radiazione”) il meccanismo dell’emissione stimolata è utilizzato per ottenere un fascio di luce composto da fotoni tutti identici tra loro. Ciò è possibile grazie a una specie di “reazione a catena” per la quale un fotone casualmente presente ne fa emettere un altro identico a sé, i due fotoni risultanti stimolano l’emissione di altri due fotoni identici e così via. Si ottiene in questo modo un fascio luminoso con caratteristiche uniche. Infatti il fascio risulta

- estremamente monocromatico: la lunghezza d’onda della luce emessa può essere precisa a meno di una parte su un miliardo;

- estremamente coerente: la fase iniziale dell’onda emessa può essere costante su una distanza (detta “lunghezza di coerenza” dell’ordine di diverse centinaia di chilometri; questa distanza è molto maggiore della lunghezza di coerenza della luce della luce di una lampada a gas che è, in genere, molto più breve del metro;

- estremamente direzionale: proprio perché i fotoni che compongono il fascio laser sono tutti identici tra loro, il fascio ha un parallelismo che non si può ottenere mediante usuali sistemi di focalizzazione che utilizzano lenti; l’allargamento del fascio è determinato soltanto dalla diffrazione dovuta al foro di uscita della luce laser.

 

L’inversione di popolazione

Un fascio laser contiene un grande numero di fotoni ottenuti per emissione stimolata. Perché ciò avvenga è necessario che lo stato quantico di energia E2 sia molto popolato di elettroni provenienti dallo stato di energia E1 che, così, risulta semivuoto. Visto che, in condizioni normali, accade il contrario (con lo stato di energia inferiore molto popolato e quello di energia superiore semivuoto), tale condizione è detta inversione di popolazione.

Vale la pena di sottolineare che il realizzarsi di una inversione di popolazione è condizione necessaria per ottenere un fascio laser. Senza di essa, infatti, il fenomeno dell’emissione stimolata non produrrebbe altro che pochi fotoni sporadici, di grande interesse teorico, ma di nessuna utilità pratica.

Ma come si può ottenere una inversione di popolazione? Come esempio, la figura sotto illustra il meccanismo che si realizza, tra l’altro, nei laser a rubino. In condizioni normali lo stato quantico di energia E1 è popolato, mentre sono vuoti gli stati con energia E2 ed E3. Per ottenere l’inversione di popolazione, lo stato con energia E2 deve essere metastabile.

inversione di popolazione

Se si invia luce di spettro continuo mediante una sorgente luminosa convenzionale, i fotoni che hanno la frequenza adatta provocano il passaggio di elettroni dallo stato di energia E1 a quello di energia E3. Da quest’ultimo gli elettroni passano velocemente a quello di energia E2 dove, invece, rimangono per tempi relativamente lunghi. Scegliendo in modo opportuno il materiale e le condizioni fisiche di funzionamento, si fa in modo che quest’ultimo livello risulti più popolato di quello iniziale, che ha energia E1.

A questo punto, il primo fotone di energia adatta che si trova nella zona di spazio interessata innesca la catena delle emissioni stimolate descritte prima, così si produce il raggio laser.

In conclusione, il funzionamento del laser è la migliore prova del fatto che i pacchetti di energia elettromagnetica, che noi chiamiamo “fotoni”, sono dei bosoni e non dei fermioni.


domenica 12 febbraio 2012

Lo spettro elettromagnetico

Lo spettro elettromagnetico è l’insieme di tutte le radiazioni che ci circondano. La “radiazione visibile”, quella che possiamo percepire con i nostri occhi, è solo una piccola frazione dello spettro elettromagnetico. Le onde elettromagnetiche sono delle oscillazioni del campo elettrico e magnetico che possono propagarsi anche nel vuoto e il parametro più importante che le caratterizza è la lunghezza d’onda. A seconda della lunghezza d’onda è possibile classificare le onde elettromagnetiche in questo modo:

a) raggi gamma (lunghezza d’onda inferiore a 10-12 metri, cioè 1 picometro);

b) raggi X (da 100 nanometri a 1 picometro);

c) ultravioletto (da 400 nanometri a 100 nanometri);

d) luce visibile (da 700 nanometri a 400 nanometri);

e) infrarosso (da 1 millimetro a 700 nanometri);

f) microonde (da 10 centimetri a 1 millimetro);

h) onde radio (lunghezza d’onda superiore a 10 centimetri).

spettro elettromagnetico

Ovviamente questi “confini” tra i tipi di radiazioni elettromagnetiche sono arbitrari, la lunghezza d’onda varia tra i raggi gamma alle onde radio senza soluzione di continuità.

Una parte dello spettro elettromagnetico molto interessante è quella dell’infrarosso. Anche nell’infrarosso si possono fare delle distinzioni in base alla lunghezza d’onda. Nell’infrarosso lontano (grande lunghezza d’onda) possiamo vedere lo stato termico dei corpi, cioè se sono più o meno caldi, nell’infrarosso vicino (piccola lunghezza d’onda, di poco superiore alle lunghezze d’onda del visibile) è possibile vedere cose molto interessanti del mondo che ci circonda.

Nell’infrarosso vicino il mondo ci appare molto simile a quello che vediamo con i nostri occhi, tranne che in alcuni dettagli che, però, sono molto interessanti. Molti pigmenti colorati che noi percepiamo dai colori molto vivaci, nell’infrarosso invece non sono assolutamente visibili. Ciò significa che le superfici trattate con questi pigmenti non riflettono l’infrarosso e quindi se le osserviamo attraverso una telecamera sensibile a questo tipo di radiazione le vedremmo bianche. Un esempio tipico sono i pigmenti che vengono usati per colorare i capi di abbigliamento. Una camicia a righe nel visibile, apparirebbe completamente bianca nell’infrarosso. Una donna che usa il colore per capelli per diventare castana scura, apparirebbe con i capelli molto chiari nell’infrarosso.

La diversa risposta dell’infrarosso a molti pigmenti utilizzati per colorare fa sì che l’infrarosso viene spesso utilizzato per distinguere quadri falsi da quelli autentici. O anche per distinguere banconote false da quelle vere. Un’altra applicazione della visione infrarossa è quella di poter distinguere se i sistemi vegetali sono in buona salute o no. La clorofilla nel visibile ci appare verde, nell’infrarosso è bianca. Se della verdura ha delle parti che stanno marcendo, nel visibile ci appaiono ancora approssimativamente verdi, nell’infrarosso invece si vedono delle nettissime zone nere.

Nel seguente filmato possiamo vedere l’esperto Nicola Ludwig che spiega cosa sono le onde elettromagnetiche, sottolineando alcune interessanti applicazione della visione all’infrarosso vicino che ho citato prima (distinguere quadri falsi, banconote false, vegetali in “cattiva salute”). Alla fine del video viene mostrato anche un “colpo di scena” in studio con una applicazione della visione infrarossa davvero sorprendente. Vi consiglio di trovare un po’ di tempo per vedere questo filmato (dura poco più di 11 minuti), perché io stesso ho imparato tante cose che non sapevo.

Buona visione a tutti.


venerdì 10 febbraio 2012

Chip fotovoltaici ad alta efficienza italiani

Negli ultimi giorni il maltempo in Italia ha causato l’isolamento di diversi centri abitati. Molti paesi sono rimasti senza corrente elettrica. Questo non sarebbe successo se l’energia solare fosse più diffusa soprattutto nei centri abitati più piccoli ed isolati. Il tema dell’energia solare ci riporta però ad un altro argomento che riguarda l’efficienza dei pannelli solari. Infatti i chip fotovoltaicinormali” non hanno una grande efficienza. Una cella solare di solito non riesce a convertire più del 18% dell’energia solare incidente.

Molti ricercatori in tutto il mondo stanno cercando di studiare nuovi modi per aumentare l’efficienza delle celle solari in modo tale da renderle “competitive” con altre forme di energia più convenzionali.

La notizia più allettante è che in una cascina alle porte di Piacenza si sta cercando di portare l’efficienza delle celle solari fino al 45%: si tratterebbe di un vero e proprio record. Si tratta del Consorzio RSE che sta sviluppando una cella solare fotovoltaica a concentrazione. Il risultato della resa al 45% dovrebbe essere raggiunto entro il 2013.

La capacità di queste nuove celle solari di concentrare l’energia solare è dovuta alle proprietà dei materiali che le compongono: indio, gallio, arsenico e silicio. Una volta che le celle solari verranno realizzate, il problema più importante sarà quello di industrializzare la produzione, abbattendo i costi e creando un prodotto competitivo sul mercato, quindi poco costoso.

Sono contento che questo tipo di studi si stiano eseguendo anche in Italia, spero sono che questa iniziativa non si trasformi (come troppo spesso succede nel nostro paese) nella solita “occasione sprecata”. Speriamo quindi che si traduca in un progresso tecnologico tangibile e fruibile per migliorare lo sfruttamento dell’energia solare in Italia e in tutto il mondo.

Nel frattempo, se volete qualche dettaglio in più su queste nuove celle fotovoltaiche ad alta efficienza italiane, vi rimando alla visione del seguente servizio televisivo che ne parla. Buona visione a tutti.


giovedì 9 febbraio 2012

Legge di gravitazione universale

Tutto cominciò con una mela caduta in testa a Isaac Newton, almeno così dice la leggenda (anche se, a quanto pare, non è proprio una leggenda). Fu Newton il primo a intuire che la forza che fa cadere gli oggetti sulla Terra è la stessa forza che tiene legata la Luna alla Terra e i pianeti attorno al Sole. In realtà è una grande intuizione, perché non sembra che ci sia una correlazione così forte tra i due fenomeni. Potremmo pensare: “ma allora perché la Luna non cade sulla Terra, visto che c’è questa attrazione gravitazionale?”. La verità è che, in qualche modo, la Luna cade continuamente sulla Terra, ma questo moto di caduta è in ogni istante compensato dal moto stesso della Luna. C’è quindi un equilibrio tra la “forza centrifuga” che tende ad allontanare la Luna dalla Terra e la loro mutua attrazione gravitazionale.

Isaac Newton

Quindi l’intuizione di Newton fu quella di pensare che se la Luna si muove di moto approssimativamente circolare attorno alla Terra, quindi presenta una forza centrifuga che tende a farla sfuggire, come mai allora resta sempre alla stessa distanza e non sfugge via? Newton pensò che la forza che equilibra la forza centrifuga doveva essere esattamente la stessa forza di gravità che sentiamo sulla Terra, indebolita ovviamente dalla distanza superiore. Newton cercò di calcolare questa forza di attrazione e si accorse che, se questa fosse stata proporzionale a 1/r2 (dove r è la distanza tra la Terra e la Luna), si sarebbe potuto prevedere addirittura il tempo orbitale della Luna!

Ma Newton non si fermò a pensare che la forza di gravità che sentiamo sotto i nostri piedi si estendesse nello spazio solo fino alla Luna, ma che arrivasse persino a permeare l’intero Universo. Ecco perché il nome di gravitazione universale. In questo modo Newton poteva spiegare anche il moto dei pianeti attorno al Sole; quindi era la gravità del Sole che teneva i pianeti nelle loro orbite.

Ma qual è la grandezza fisica che “genera” questa forza di gravità? Newton propose che fosse la massa. In particolare era evidente che la forza di gravità tra due corpi con un certa massa fosse proporzionale al prodotto delle loro masse.

Questo lo possiamo dimostrare facilmente in questo modo:

Supponiamo di considerare il sistema Terra-Sole. Indichiamo con M la massa del Sole e con m quella della Terra. Sopponiamo inoltre che l’orbita della Terra sia circolare (approssimazione che non si discosta molto dalla realtà, dato che l’orbita terrestre è un’ellisse con eccentricità pari a 0,0167). Così possiamo ipotizzare che il moto della Terra sia circolare uniforme.

La forza che lega la Terra al Sole (quindi è una forza centripeta) è data dalla seconda legge di Newton:

dove m, come detto prima, è la massa della Terra.

Sappiamo anche che, in un moto circolare uniforme la velocità è data da:

dove:

e si chiama “frequenza angolare”.

Così possiamo scrivere che l’accelerazione centripeta è:

Sostituendo nell’espressione della seconda legge di Newton, possiamo scrivere:

A questo punto possiamo chiamare in causa la terza legge di Keplero per cercare di eliminare la dipendenza dal quadrato del tempo di quest’ultima formula.

La terza legge di Keplero afferma, infatti, che i cubi dei raggi delle orbite dei pianeti sono direttamente proporzionali ai quadrati dei loro periodi orbitali. Questa proporzionalità diretta la posso esprimere in questo modo:

Sapendo questo, sostituisco nell’espressione della forza, ottenendo:

Questa è la forza che il Sole esercita sulla Terra. Ma, simmetricamente, dobbiamo considerare anche la forza con cui la Terra attrae il Sole, che sarà data da:

dove, la massa M stavolta è quella del Sole e il segno meno è dovuto al fatto che tale forza, ovviamente, è in direzione opposta rispetto a quella vista prima.

Per il terzo principio della dinamica (legge di azione e reazione) posso quindi scrivere:

e quindi:

da cui ottengo:

A questo punto posso riscrivere le espressioni per F ed F’ in un altro modo. Se le moltiplico e divido entrambe per una stessa quantità (m/m o M/M) le posso “modificare” senza in realtà cambiare nulla.

Dato che, come avevamo visto in precedenza, risulta che:

possiamo eguagliare anche le quantità:

Sostituendo G in una qualsiasi delle espressioni di F o F’, otteniamo infine:

G è una costante che viene chiamata costante di gravitazione universale. Si tratta di un valore costante che può essere misurato e che di solito viene approssimato con il valore:

e che non è altro che la forza con cui si attraggono due masse di 1 Kg poste a 1 metro di distanza l’una dall’altra. Si noti che è un valore molto piccolo ed è per questo motivo che non sentiamo la forza di attrazione gravitazionale degli oggetti che ci circondano quotidianamente. Non perché non c’è, ma perché è troppo piccola per essere percepita con i nostri sensi. Invece percepiamo la forza di gravità della Terra perché ha una massa molto grande.

La legge di gravitazione universale può essere enunciata nel seguente modo:

due punti materiali si attraggono con una forza di intensità direttamente proporzionale al prodotto delle masse dei singoli corpi ed inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza

Bisogna notare l’espressione “punti materiali”. Infatti la forza di gravità viene di solito definita tra corpi considerati puntiformi. Questo perché se consideriamo corpi celesti come il Sole o la Terra, la forza di gravità che esercitano è la stessa che si avrebbe se tutta la massa dei loro corpi sferici fosse concentrata nel loro centro.


mercoledì 8 febbraio 2012

Piramidi su Marte

Marte è sempre stato un pianeta affascinante. Questo pianeta è uno dei pochi corpi celesti del cielo ad esibire un colore ben visibile ad occhio nudo. Non per niente si è guadagnato il nome di “pianeta rosso”. Gli scienziati lo considerano un mondo molto interessante, i visionari hanno subito cominciato a pensare che ci potesse essere la vita.

Marte

Le prime osservazioni telescopiche di qualità sufficiente mostrarono come Marte possedeva delle strutture superficiali ben definite, come aree chiare e scure che potevano far pensare alla presenza di continenti ed oceani. Nel 1877, l’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli, approfittando di una opposizione (cioè quando Marte e la Terra si trovano dalla stessa parte rispetto al Sole e si trovano ad una distanza minima l’uno dall’altra) di Marte particolarmente favorevole, riuscì a disegnare una mappa del pianeta. Assecondando l’ipotesi che le aree scure fossero oceani, le linee scure che attraversavano le aree più chiare, Schiaparelli le chiamò “canali”.

disegno di Marte di Schiaparelli

(mappa di Marte disegnata da Schiaparelli)

Bisogna però notare che i “fiumi” o i “canali” non hanno nulla di reale. Ad esempio la pianura Hellas è un gigantesco cratere da impatto e il “lago” presente in Thaumasia felix sappiamo adesso che è la caldera del gigantesco vulcano a scudo Olympus Mons.

L’astronomo americano Percival Lowell credette che Schiaparelli avesse scoperto dei canali artificiali. Questo equivoco derivava dal fatti che la parola italiana “canali” usata da Schiaparelli fu tradotta in inglese usando il termine “canals” che significa appunto canali artificiali. Lowell divenne subito uno dei maggiori proponenti dell’ipotesi che su Marte ci fosse una complessa civilizzazione. Questa sua idea fu superata quando gli astronomi che osservarono Marte con telescopi più potenti non trovarono nessun canale. Ciò dimostrò che la visione dei canali non fu altro che una vera e propria illusione ottica. Quando furono effettuate le prime osservazioni spettrografiche di Marte si scoprì che il pianeta non è un luogo particolarmente ospitale. Freddo, arido e con un’atmosfera troppo sottile per mantenere l’acqua sotto forma liquida.

mappa di Marte di Lowell

(mappa dei canali marziani disegnata da Percival Lowell)

In ogni caso l’idea di un Marte abitato durò con alterna fortuna fino al 1965, quando la sonda Mariner 4 sorvolò il pianeta rosso.

Nel suo breve incontro, la sonda rivelò che Marte appariva come un pianeta morto e ostile molto simile alla Luna, costellato di crateri da impatto e da ampi deserti. Ovviamente non c’era nessun canale.

(foto di una parte della superficie di Marte realizzata dalla sonda Mariner 4)

L’idea della vita su Marte fu abbandonata, ma l’interesse per il pianeta rosso rimase. I canali non erano cose reali, ma fiorirono molte nuove ipotesi sul passato di Marte e su come in questo passato potessero effettivamente esistere i marziani. Se nel presente non c’erano tracce di civilizzazione, potevano però essere esistite in un passato più o meno remoto. Dopo il Mariner 4, le sonde Mariner 6 e 7 confermarono l’assenza di vita su Marte.

Ma il colpo di scena sta per arrivare. Il Mariner 9 giunge su Marte il 14 novembre del 1971. Fu seguito nel giro di un mese dalle sonde sovietiche Mars 2 e Mars 3. Al loro arrivo le sonde scoprirono un Marte trasformato. Una immensa tempesta di sabbia aveva nascosto gran parte della superficie del pianeta.

Alla fine di questa immensa tempesta, quando la visibilità tornò normale, venne rivelato un mondo di meraviglie che prima non era mai stato visto. C’erano vulcani di dimensioni enormi, un immenso sistema di canyon che fu battezzato con lo stesso nome della sonda Mariner (Valles Marineris), letti prosciugati di fiumi, nebbie, nubi… e anche qualcosa di più incredibile. Giorno 8 febbraio 1972 (oggi quindi sono passati esattamente 40 anni), il Mariner 9 mandò sulla Terra un’immagine che mostrava un certo numero di oggetti che sembravano piramidi in una regione chiamata Elysium Planitia.

piramidi su Marte

(foto del Mariner 9 della regione Elysium Planitia che mostra le forme piramidali)

Cosa potevano essere queste piramidi? Erano forse la prova della presenza di vita intelligente su Marte? Queste piramidi erano l’analogo delle antiche piramidi egizie sulla Terra? Il problema è che sono molte le strutture superficiali, anche sulla Terra, che hanno un aspetto vagamente artificiale, ma nessuna di queste è realmente una piramide. Il colpo di scena più spettacolare però sarebbe arrivato nel 1976.

Nel 1976 su Marte arrivarono due sonde spaziali molto più sofisticate di tutte quelle che erano state mandate in precedenza. Si trattava del Viking 1 e del Viking 2. Ciascuna di queste sonde era formata da una coppia orbiter (cioè una sonda che resta in orbita attorno al pianeta) e lander (sonda che atterra).

Gli orbiter analizzarono la superficie di Marte con un dettaglio molto maggiore rispetto a quello del Mariner 9. Oltre a ottenere immagini delle piramidi della Elysium Planitia con maggiore risoluzione, trovò qualcosa di inaspettato in una regione chiamata Cydonia Mensae.

faccia su Marte

(la famosa “faccia su Marte” fotografata dal Viking 1. I punti neri sono perdite di dati e non oggetti reali)

Se le piramidi avevano già eccitato la fantasia della gente, figuriamoci che effetto poteva avere la scoperta di una faccia gigante! Un consulente del Goddard Space Flight Center vide queste immagini e divenne famoso grazie ad esse. Si chiamava Richard Hoagland e divenne il più ardente sostenitore della Faccia su Marte. Egli descrisse le piramidi come una città sepolta e la Faccia come un monumento fatiscente, simile alla Sfinge in Egitto.

Non vi furono nuove immagini di queste strutture per molto tempo, fino al 12 settembre 1997, quando una nuova sonda arrivò su Marte. Si tratta della Mars Global Surveyor. Le zone di Elysium e di Cydonia furono nuovamente riprese, ma le strutture che sembravano piramidi o facce umane persero il loro aspetto artificiale non appena furono fotografate ad alta risoluzione e da prospettive diverse. Per quelli che avevano ipotizzato la presenza nel passato di civiltà aliene fu una grande delusione. Le missioni successive, come Mars Odyssey 2001, Mars Express e Mars Reconnaissance Orbiter hanno confermato l’assenza di strutture artificiali su Marte.

piramide su Marte

(una delle piramidi della zona Elysium, fotografata dal Mars Reconnaissance Orbiter)

In qualche modo sembra una piramide, un po’ come quella che vedete nel seguente filmato:

Anche se non sembra proprio che ci siano davvero strutture aliene costruite sulla sua superficie, Marte nasconde ancora molti misteri. Ricordiamo su Marte ci sono i più grandi vulcani del Sistema Solare e anche il più grande Canyon conosciuto. Marte è più piccolo della Terra, ma la sua superficie è pari a quella delle terre emerse del nostro pianeta. Esiste una meteorologia, esistono i “dust devil” e le tempeste di sabbia giganti. Possiede calotte polari costituite da una miscela d’acqua e di anidride carbonica. Non sono ci sono tracce inequivocabili del fatto che acqua liquida scorreva sulla sua superficie in un lontano passato, ma sembra che questa cosa possa succedere anche nel presente. Una ricerca cerca di stabilire una cosa importantissima: è mai esistita vita a livello microscopico su Marte (o forse esiste ancora)? E’ ciò che cercherà di stabilire una sonda che arriverà sul pianeta nel mese di agosto del 2012. Si tratta del Mars Science Laboratory (chiamato più brevemente Curiosity). La durata della missione è prevista in almeno un anno marziano (circa 2 anni terrestri) e lo scopo sarà quello di investigare sulla passata e presente capacità di Marte di sostenere la vita.

rover Curiosity

(il rover della sonda Curiosity)

Beh, se la risposta sarà positiva, potremmo andare ad abitare lì, un giorno!

(Fonte: http://www.mentalfloss.com/blogs/archives/116191)


martedì 7 febbraio 2012

The planets – i pianeti di Gustav Holst

VChi ama l’astronomia e nello stesso tempo ama la musica classica, non può non avere ascoltato almeno una volta questa famosa opera musicale dedicata ai pianeti. Si tratta di “The Planets” (i pianeti) del compositore inglese Gustav Holst. In realtà l’opera The Planets non è ispirata da concetti astronomici, ma da considerazioni astrologiche. Holst era molto influenzato da un astrologo del diciannovesimo secolo che si chiamava Raphael.

Anche se non possiamo assolutamente credere all’astrologia, crediamo comunque nel talento compositivo di Gustav Holst. Così vi presento questa opera meravigliosa divisa, ovviamente, in 7 parti, cioè quanti sono i pianeti fino a Nettuno.

Una curiosità. John Williams si ispirò al brano Mars per la colonna sonora del film Guerre Stellari.

La prima di queste parti si intitola Mars, the Bringer of War. Durante l’ascolto si noti la notevole somiglianza con alcuni passaggi della colonna sonora di Guerre Stellari. Come scritto prima, in effetti Mars su fonte di ispirazione per John Williams per la composizione della colonna sonora di famosi film di fantascienza.

 

La seconda parte è Venus, the Bringer of Peace, qui diretta da Eugene Ormandy con la Philadelphia Orchestra nel 1975. Buon ascolto.

 

La terza parte si intitola Jupiter, the Bringer of Jollity. Anche qui il brano è diretto da Eugene Ormandy con la Philadelphia Orchestra nel 1975. Buon ascolto.

 

La quarta parte è Saturn, the Bringer of Old Age. In questo caso dirige Sir Charles Mackerras con la BBC Philharmonic orchestra. Buon ascolto del brano più vivace e e divertente di tutta l’opera.

 


Il quinto brano di questa affascinante opera si intitola Uranus, the Magician. Anche in questo caso dirige Sir Charles Mackerras con la BBC Philharmonic orchestra. Si noti che questo brano è stato usato nel film Fantasia (1940) di Walt Disney nella famosa scena in cui topolino è un mago pasticcione. Buon ascolto.

 

Siamo arrivati al sesto brano che si intitola Neptune, the Mystic. Come al solito dirige Sir Charles Mackerras con la BBC Philharmonic orchestra. Buon ascolto.

 

La settima e ultima parte si intitola Mercury, the Winged Messenger. Anche per questo brano dirige Sir Charles Mackerras con la BBC Philharmonic orchestra. Buon ascolto.

Se siete arrivati a questo punto dell’ascolto significa che quest’opera vi ha veramente affascinati. Ne sono molto contento perché ascoltare buona musica fa sempre bene Sorriso. Ci vediamo al mio prossimo post dedicato alla musica.


lunedì 6 febbraio 2012

La tela del ragno. Perché è così resistente?

Sappiamo bene che la tela di un ragno è straordinariamente resistente. Ci chiediamo come fa un filo così sottile ad essere così robusto. Alcuni scienziati hanno studiato la struttura delle ragnatele e hanno capito, da un punto di vista matematico, perché la tela del ragno possiede tali caratteristiche di incredibile resistenza. In questo modo sarà possibile sfruttare la conoscenze acquisite per ottenere dei materiali che presentano lo stesso tipo di caratteristiche.

Nel seguente filmato possiamo vedere un servizio di TG Leonardo che ci spiega cosa hanno fatto alcuni ricercatori per comprendere perché la tela del ragno è così resistente.

Buona visione a tutti.


Space X Starship: il nuovo tentativo di lancio del 18 novembre 2023.

Vediamo un frammento della diretta del lancio dello Starship del 18 noembre 2023. Il Booster 9, il primo stadio del razzo, esplode poco dopo...