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sabato 8 gennaio 2011

Come studiare bene, alcuni consigli utili

 

Per ottenere soddisfacenti risultati di apprendimento in un tempo prestabilito, occorre impadronirsi di una serie di tecniche di lavoro utili per favorire la memorizzazione, la sintesi e la rielaborazione personale dei contenuti. Lo studente che avrà imparato a trarre il meglio dagli strumenti a sua disposizione riuscirà a ottimizzare il proprio tempo e, in definitiva, a trascorrere meno ore sui libri. Questo però è l'approdo finale di un esercizio costante, giornaliero, di applicazione metodica, che all'inizio potrà sembrare forse noioso, ma che non tarderà a dare i suoi frutti.


Prendere appunti

prendere appunti

Una prima operazione, che si raccomanda a tutti gli studenti di non trascurare, è quella di prendere appunti durante le lezioni. Sarebbe opportuno portare in classe un unico quaderno ad anelli con fogli staccabili, in cui raccogliere gli appunti di tutte le materie; a casa poi lo studente si preoccuperà di curare l'elaborazione dei vari quaderni disciplinari. Prendere appunti, infatti, è un esercizio che inizia a scuola, ma che poi continua a casa, perché le note scritte velocemente in classe hanno sempre bisogno di essere riordinate e, talvolta, integrate.

Il quaderno degli appunti è un po' come il diario personale, ed è giusto che la sua organizzazione sia lasciata alla libertà degli studenti: c'è chi si inventa una specie di stenografia fatta di abbreviazioni per scrivere più rapidamente (cmq al posto di "comunque" , x' invece di "perché", a. per "anno", sec. per "secondo" e così via), chi usa pennarelli di colori diversi, chi evidenzia in colore i passi importanti, chi inserisce immagini, grafici e tabelle.

Indipendentemente dalle strategie utilizzate, è importante ricordare che prendere appunti non è un'operazione passiva, ma un vero e proprio esercizio che mette alla prova le abilità dello studente, in modo particolare la capacità di ascoltare in modo attivo e di operare, già durante le lezioni in classe, una selezione e una sintesi dei contenuti. Infatti non è necessario scrivere da forsennati come sotto dettatura, per timore di perdere anche solo una parola di quello che dice l'insegnante; è assai più utile esercitarsi a riassumere il contenuto delle spiegazioni, annotando solo le informazioni essenziali. Naturalmente si può chiedere la collaborazione del professore, che sarà ben felice di venire incontro alle esigenze dei suoi volenterosi allievi rallentando il ritmo dell'esposizione o dando espressa indicazione delle informazioni salienti e di quelle accessorie.

In conclusione, prendere appunti in classe, per annotare i passaggi principali della spiegazione degli insegnanti, è un'ottima abitudine, che aiuta non soltanto a non perdere la concentrazione, ma anche a esercitare le proprie capacità di sintesi e di rielaborazione dei contenuti.


Organizzatori anticipati, riassunti e mappe concettuali

mappa concettuale

Spesso, nei libri di testo, all'inizio di ogni unità di apprendimento si trova una breve introduzione che anticipa allo studente i contenuti che incontrerà. Nel linguaggio della pedagogia, questo tipo di espediente si chiama organizzatore anticipato e serve a fare entrare lo studente nell'ambiente concettuale dell'unità, e a sollecitare la sua curiosità e le sue aspettative.

Anche nel quaderno degli appunti personali potrebbero essere inseriti degli organizzatori anticipati, come breve introduzione (bastano poche righe) ad ogni lezione. Naturalmente non dovranno essere scritti in classe, ma a casa, alla fine dell'attività di rielaborazione degli appunti. Quando gli allievi ripasseranno i contenuti sul loro quaderno, gli organizzatori serviranno a rammentare sinteticamente l'argomento di quella lezione.

Il riassunto è un esercizio un po' trascurato in classe, ma utilissimo per imparare a scrivere, esercitando le capacità di comprensione e di sintesi. Provate ogni tanto (una volta al mese può bastare) a fare un riassunto di un'unità di apprendimento del libro di testo, stabilendone in anticipo la lunghezza: le vostre abilità di scrittura miglioreranno sensibilmente.

La maggior parte dei libri di testo contiene, in fondo a ogni unità, una mappa concettuale, che riassume in modo schematico i contenuti presentati, con l'aiuto di elaborazioni grafiche che visualizzano l'articolazione delle informazioni. Si tratta di sussidi utili, ma ogni studente dovrebbe elaborare le proprie mappe concettuali, questo perché ognuno ha il proprio stile cognitivo e di apprendimento.


Personalizzare il libro di testo

sottolineare il libro

Che noia quei libri di testo nuovi fiammanti, appena usciti dalla cartoleria, con le pagine belle pulite! Perché non renderli "nostri" personalizzandoli con note a margine (come facevano i monaci medievali nei preziosi codici), con sottolineature di colore diverso, con le spiegazioni dei termini difficili?

I libri di testo sono strumenti di lavoro che devono recare le tracce dell'impegno degli studenti, anche perché sono proprio quelle "tracce" a rendere più veloci ed efficaci non solo la memorizzazione, ma anche il ripasso.


martedì 4 gennaio 2011

La comunicazione non verbale: i vari tipi di segnali.

 

Nell'interazione comunicativa quotidiana, la comunicazione non verbale completa, accompagna e specifica ulteriormente quella verbale. In questo senso è considerata efficace per trasmettere l'aspetto di relazione: un'apostrofe come «Disgraziato che non sei altro!», proferita con un sorriso, con un tono scherzoso e magari con una pacca sulla schiena, rassicura chi la riceve sulle intenzioni amichevoli di chi la pronuncia.

espressioni del viso

Diverse ricerche hanno mostrato il peso degli elementi non verbali nella ricezione di un messaggio: secondo recenti studi, nell'interpretazione di un messaggio le parole da sole hanno un peso inferiore al 10% e sono molto più importanti altri elementi, quali il tono della voce, i gesti e le espressioni con cui vengono accompagnate.

Sono state tentate diverse classificazioni dei segnali usati nella comunicazione non verbale; sommariamente, possiamo riconoscerne 8 gruppi principali:

segnali prosodici: si trasmettono con la voce e comprendono tutti quegli elementi che creano una sorta di melodia e musicalità del parlato, come la forza vocale, il ritmo, l'intonazione, la velocità di eloquio, l'enfasi (cioè la sottolineatura di una parola o di parte di essa);

segnali paralinguistici: sono componenti vocali della comunicazione verbale non dotati di musicalità, come le pause, le esitazioni, i borbottii, i colpi di tosse, i sospiri;

aspetto esteriore: è il complesso dei segnali che si legano alla nostra immagine, come l'abbigliamento, il trucco, gli ornamenti, le decorazioni del corpo (tatuaggi, piercing), le acconciature;

segnali prossemici: coincidono con l'uso (consapevole o meno) dello spazio nella comunicazione. Si pensi alla distanza interpersonale, all'orientazione dei corpi, alla disposizione e ai movimenti degli interlocutori nell'ambiente.;

segnali posturali: comprendono tutte le posizioni assunte dal corpo durante la comunicazione, ad esempio rigida, tesa, rilassata, con il busto proteso in avanti, con le braccia conserte, frontale, di tre quarti;

espressioni del viso: comprendono tutti i tratti della mimica facciale utilizzabili a fini comunicativi, dal riso al sorriso, alle smorfie di disgusto, al broncio, all'alzata di sopracciglia;

segnali gestuali: si ottengono con movimenti delle mani e del capo. Una qualche forma di gestualità accompagna sempre la comunicazione, ma con intensità e frequenza che tendenzialmente sono legate all'educazione ricevuta e alla cultura di appartenenza: ci sono infatti popolazioni che incoraggiano la comunicazione a gesti, mentre altre la reprimono, considerandola disdicevole;

contatti: sono tutti quei segnali che si avvalgono del canale motorio-tattile come la stretta di mano, l'abbraccio, il bacio di saluto, il braccio intorno alla vita, il gesto di "dare il 5" (diffuso tra gli sportivi) o il, grooming (cioè la pulizia reciproca di pelle e capelli, che da noi non usa, ma che alcune popolazioni praticano per rilassarsi e rinsaldare i rapporti sociali).


giovedì 30 dicembre 2010

Effetto placebo: funziona anche se i pazienti sanno che stanno prendendo un finto farmaco

 

Alcuni scienziati hanno scoperto che i pazienti possono trovare beneficio da un farmaco fittizio anche se sanno perfettamente che questo non contiene alcun principio attivo. Questo nuovo studio mostra quindi che l’effetto placebo funziona anche nel caso in cui medico non “inganna” il paziente.

pillole

Quando un paziente affetto da un disturbo viene sottoposto ad un rimedio simulato (ad esempio gli viene somministrata una pillola di zucchero) e, nonostante tutto, si riesce a registrare un miglioramento oggettivo della sua condizione, si parla di effetto placebo.

L’opinione più diffusa era che l’effetto placebo può funzionare solo se il paziente crede che il farmaco che gli viene somministrato è davvero efficace, cioè contiene effettivamente un principio attivo. I farmaci “finti” vengono usati per testare i farmaci sperimentali per confronto. Un farmaco, per essere considerato realmente efficace, deve superare il placebo.

Il professor Ted Kaptchuk del Harvard Medical School Osher Research Center, ha diviso 80 pazienti che soffrivano della sindrome del colon irritabile in due gruppi. Il primo gruppo non ha ricevuto nessun trattamento, il secondo gruppo è stato trattato con un placebo. A pazienti di questo secondo gruppo è stata somministrata un piccola fatta con sostanza inerte (zucchero), ma gli è stato detto che alcuni studi clinici avevano dimostrato che questo tipo di pillole aveva mostrato una certa efficacia nella cura della sindrome del colon irritabile attraverso meccanismi di autoguarigione che coinvolgevano il sistema mente-corpo.

Sorprendentemente si è visto che il secondo gruppo ha ottenuto un miglioramento significativamente più alto rispetto al gruppo che non riceveva nessun trattamento. Come dire: meglio una pillola finta (sapendo che è finta) piuttosto che non curarsi affatto!

Si tratta di un risultato molto interessante, perché mostra come il placebo funziona anche se si sa che è un placebo e questo potrebbe essere sfruttato nei trattamenti medici per potenziarne gli effetti. In conclusione, il pensiero positivo funziona Occhiolino.


mercoledì 29 dicembre 2010

Motivazione: la "molla" dell'agire

 

Motivazione: una possibile definizione

Provate a pensare alle innumerevoli attività che svolgete durante la giornata: mangiate o fate uno spuntino spinti dalla fame o dalla gola; uscite con gli amici o andate in palestra per rilassarvi e divertirvi; ripassate l'algebra o la grammatica per prepararvi all'interrogazione e così via. Ognuna di queste attività scaturisce da una spinta, da un impulso che ci induce a iniziarla, proseguirla e portarla a compimento, vincendo eventuali fattori in grado di contrastarla (ad esempio la fatica, o le distrazioni che potrebbero distoglierci dallo studio). Chiamiamo motivazione questa spinta, e comportamento motivato la sequenza di azioni a cui essa dà luogo.

motivazione

Innanzitutto, è importante osservare che la motivazione non è un'entità statica e immutabile, ma qualcosa di dinamico, che può variare nel tempo conoscendo notevoli oscillazioni: un individuo, ad esempio, può intraprendere un determinato sport con un livello di motivazione molto alto, ma stancarsi dopo un certo periodo di tempo e avvertire l'impulso a ricominciare solo molti anni più tardi.

In secondo luogo, occorre sottolineare che in un soggetto convivono più motivazioni a livello potenziale, e tra queste non tutte concorrono a determinare il suo comportamento: ad esempio, un giovanotto che alla sera ami uscire con gli amici o con la ragazza può anche decidere di rinunciarvi, se proprio quella sera trasmettono in TV un'importante partita della sua squadra del cuore.

Talvolta, inoltre, oscilliamo tra differenti motivazioni, ed è un determinato stimolo ambientale a orientarci in una direzione piuttosto che in un'altra. Ad esempio, se non sappiamo se rincasare o andare al cinema, l'incontro con un amico desideroso di passare fuori la serata può spingerci verso questa seconda soluzione: possiamo allora dire che aver incontrato l'amico ha funzionato da incentivo, cioè da stimolo ambientale in grado di orientare le nostre spinte motivazionali. È bene tuttavia osservare a questo proposito che gli stimoli ambientali funzionano solo se possono fare leva su una spinta ad agire nella direzione tracciata da uno stimolo già esistente. Ad esempio, su una persona che non ha alcuna intenzione di smettere di fumare difficilmente faranno presa l'esempio degli amici che hanno abbandonato il fumo o le campagne pubblicitarie contro il tabacco; o, ancora, per un atleta poco combattivo gli incitamenti del pubblico non saranno determinanti per raggiungere un buon risultato nella competizione.

È utile, a questo punto, sottolineare la differenza esistente tra il concetto di motivazione e quello di bisogno. Con questo termine — che non appartiene solo all'ambito della psicologia, ma anche a quello di altre discipline, come l'economia — possiamo designare un'esigenza biologica dell'organismo, capace di innescare comportamenti adeguati per colmare una situazione di mancanza.

Comunemente si distingue tra:

bisogni omeostatici, che rispondono alla necessità degli organismi viventi di mantenere in equilibrio le proprie condizioni interne (sono di questo tipo bisogni come la fame e la sete);

• e bisogni innati specifici, che sono esigenze modellate dall'evoluzione della specie per facilitare l'adattamento dell'individuo all'ambiente (rientrano in questa categoria, ad esempio, la curiosità, oppure quello che gli psicologi chiamano need for competence, ovvero l'esigenza di mettere alla prova le proprie abilità, spesso per il puro gusto dell'esercizio).

Distinguiamo quindi tra bisogni e motivazioni perché i primi attengono alla sfera biologica dell'individuo, mentre le seconde riguardano la sfera psicologica.

La differenza tra bisogni e motivazioni ci appare più evidente se pensiamo che spesso, tra una necessità biologica dell'organismo e la relativa spinta ad agire (motivazione) che dovrebbe essere innescata da quel bisogno, non c'è corrispondenza immediata. I soggetti con gravi disturbi del comportamento alimentare, ad esempio, hanno nei confronti del cibo spinte attrattive o repulsive che non sono giustificate da reali necessità organiche. E noi tutti, in generale, anche quando crediamo di mangiare semplicemente spinti dalla fame, in realtà sentiamo un'esigenza che passa attraverso la nostra rappresentazione psicologica del cibo, dell'alimentazione e di ciò che il nostro contesto sociale e culturale definisce "mangiabile". Per fare un esempio: nella nostra società, una persona affamata (salvo che in situazioni estreme) difficilmente sentirà la spinta a mangiare carne di topo, di gatto o di altri animali che abitualmente non consumiamo.


Motivazioni intrinseche ed estrinseche

La presenza di una certa motivazione viene solitamente inferita dal comportamento a cui essa dà luogo (ad esempio, se una persona studia cinese, ne deduciamo che sia motivata a farlo). In realtà, uno stesso comportamento (l'atto del mangiare, ad esempio) può avere alla base spinte motivazionali molto diverse (fame, gola, tensione ecc.): un ragazzo può suonare uno strumento musicale o praticare uno sport per assecondare i genitori, mentre un altro può fare le stesse cose spinto da motivazioni differenti o addirittura opposte (ad esempio, per ripicca verso la famiglia, che scoraggia la pratica di attività del genere).

Una distinzione molto importante introdotta a questo proposito dagli psicologi è quella tra motivazione intrinseca e motivazione estrinseca:

• è intrinseca la motivazione dell'individuo che agisce per la semplice gratificazione che scaturisce dal comportamento messo in atto;

• è estrinseca quella del soggetto che tende a una meta "esterna" al comportamento, ma conseguibile tramite esso.

Per esemplificare, è motivata intrinsecamente una ragazza che frequenta una palestra per la soddisfazione di sentirsi in forma e in salute, mentre è estrinseca la motivazione della sua compagna, che pratica questa attività semplicemente per conoscere gli aitanti giovanotti che frequentano il corso di spinning.


giovedì 23 dicembre 2010

Depressione a Natale

 

Per molti le feste natalizie non sono sinonimo di relax o di vacanze piacevoli. Infiniti studi realizzati da psicologi mostrano che il periodo che va da Natale a capodanno è un periodo in cui c’è un aumento notevole di sintomi di ansia e depressione. Difficile dire qual è il motivo di questa depressione per gli studiosi.

Sarà difficile per gli psicologi, ma non per noi Occhiolino Noi lo sappiamo bene quali sono le fonti di ansia a depressione: sono i parenti Sorriso, cioè il fatto che in questo periodo di feste si passa molto tempo con numerosi parenti. E questo generalmente non è un bene… Sorriso

Adesso che abbiamo svelato il mistero possiamo passare le nostre vacanze da soli, possibilmente partendo per mete lontane.


venerdì 17 dicembre 2010

La comunicazione come trasmissione: lo schema di Shannon.

 

Etimologicamente, la parola comunicazione deriva dall'aggettivo latino communis, che significa "comune", da cui a sua volta deriva il verbo communico, "metto in comune", appunto. Da questa stessa radice derivano anche altre parole della nostra lingua, come "comunione" e "comunità". Nel suo significato originario, il termine "comunicazione" comprende dunque l'idea del "condividere" esperienze, pensieri, emozioni.

comunicazione

Gradualmente, però, a questa accezione se ne è sovrapposta una seconda, che nel tempo ha finito per prevalere: comunicare come "trasmettere" o "trasferire", inizialmente riferito a entità fisiche, in seguito a informazioni.

Lo schema di Shannon

Nel tentativo di individuare un modello della comunicazione, ossia uno schema che riproducesse la struttura di base di ogni atto comunicativo, gli studiosi si sono ispirati proprio all'idea della comunicazione come trasmissione.

Il primo di questi modelli è stato elaborato negli Stati Uniti negli anni Quaranta del Novecento, non da psicologi o da esperti di scienze sociali, ma da un ingegnere e matematico: Claude E. Shannon (1916-2001), autore di una teoria in cui la comunicazione era concepita come trasferimento di informazioni tramite segnali da una fonte a un destinatario, trasferimento reso possibile da un apparato di trasmissione e da uno di ricezione. Shannon era ricercatore presso i laboratori della Bell Telephone e aveva in mente soprattutto la comunicazione telefonica, in cui c'è un luogo da cui parte la chiamata (la fonte, ad esempio la casa di Giuseppe) e un luogo in cui arriva (il destinatario, ad esempio la casa di Giovanni), collegati tra loro grazie agli apparecchi telefonici e a un sistema di cavi, antenne e trasmettitori.

Come emerge dallo schema riportato di seguito, nella comunicazione così intesa il problema principale consiste nel controllo della correttezza del segnale e del suo trasferimento dalla fonte al destinatario: se la comunicazione è difficoltosa, ciò è da imputare unicamente all'interposizione di fattori di disturbo (esterni o interni, fisici o psicologici) che impediscono la corretta ricezione del messaggio.


mercoledì 15 dicembre 2010

L'allenamento emotivo: una proposta per i genitori

 

John Gottman è un professore di psicologia all'Università di Washington. Nel 1997 ha scritto un libro, The Heart of Parenting, il cui titolo italiano, Intelligenza emotiva per un figlio, richiama il concetto reso popolare dai libri di Daniel Goleman. Nel suo testo, in cui ha sviluppato gli aspetti della teoria di Goleman che riguardano più da vicino l'educazione familiare, e in particolare l'educazione alle emozioni, Gottman classifica i genitori in 4 tipologie: noncuranti, censori, lassisti e allenatori emotivi. Quest'ultima tipologia è quella che Gottman propone come modello da seguire.

intelligenza emotiva per un figlio

Il cosiddetto “allenamento emotivo” si sviluppa in 5 fasi:

1. diventare consapevole dell'emozione del bambino;
2. riconoscere in quell'emozione un'opportunità di intimità e di insegnamento;
3. ascoltare con empatia e convalidare i sentimenti del bambino;
4. aiutare il bambino a trovare le parole per definire le emozioni che sta provando;
5. porre dei limiti, mentre si esplorano le strategie per risolvere il problema in questione.

Si riportano qui alcuni brani del testo di Gottman in cui si spiega perché l'allenamento alle emozioni dovrebbe costituire il cuore della relazione con i figli.

“Sorprendentemente, la maggior parte dei consigli che comunemente vengono dati ai genitori ignora il mondo dell'emozione. Essi si basano, al contrario, su teorie educative interessate al fatto che i bambini si comportino male, ma che ignorano i sentimenti che sottendono a quei comportamenti. In ogni caso, il fine ultimo dell'educazione dei figli non dovrebbe consistere meramente nell'ottenere un individuo docile e obbediente. La maggior parte dei genitori spera in molto di più. Si vuole che i figli diventino persone rette e responsabili, diano il loro contributo alla società, abbiano la forza per fare le proprie scelte nella vita, godano della realizzazione dei propri talenti, della vita e dei piaceri che essa può offrire, intrattengano buoni rapporti con gli amici, abbiano un matrimonio riuscito e, a loro volta, diventino buoni genitori.”

“Nel corso delle mie ricerche ho scoperto che l'amore da solo non è sufficiente. Genitori attenti, affettuosi, assidui, spesso hanno nei confronti delle proprie emozioni e di quelle dei figli atteggiamenti che interferiscono con la capacità di comunicare con i figli quando questi ultimi sono tristi o spaventati o in collera. Ma, se l'amore da solo non è sufficiente, incanalare questo affetto in alcune competenze di base che i genitori esercitano mentre "addestrano" i figli nell'area dell'emotività è sufficiente. Il segreto consiste nel modo in cui i genitori interagiscono con i figli quando le emozioni diventano intense. Abbiamo studiato genitori e figli nel corso di accuratissime ricerche di laboratorio e abbiamo seguito i figli durante la loro crescita. Dopo un decennio di studi nel mio laboratorio, la mia équipe di ricerca ha individuato un gruppo di genitori che, quando i loro figli si trovavano in situazioni emotivamente critiche, faceva cinque cose molto semplici.”

“Abbiamo chiamato queste cinque cose “allenamento emotivo” e abbiamo scoperto che i ragazzi che avevano genitori che li "allenavano" emotivamente intraprendevano una traiettoria di sviluppo completamente diversa rispetto ai figli di altri genitori. I genitori-allenatori avevano figli che in seguito sarebbero diventati quel tipo di persone che Daniel Goleman definisce «emotivamente intelligenti». Questi bambini emotivamente allenati dimostravano maggiori capacità nel campo delle proprie emozioni di quante non ne rivelassero bambini non allenati dai loro genitori. Tra queste capacità c'era anche quella di regolare il proprio stato emozionale. Quei ragazzi riuscivano meglio a calmarsi quando erano agitati. Riuscivano a rallentare i battiti del loro cuore più in fretta. Il fatto di ottenere migliori risultati in quella parte della fisiologia che entra in gioco nel ritrovare la calma e la tranquillità, rendeva quei ragazzi meno esposti alle malattie infettive. Riuscivano a concentrarsi meglio, a essere più attenti, a relazionarsi meglio con gli altri, anche nelle situazioni socialmente difficili tipiche dell'infanzia, come quando si viene stuzzicati, in cui essere troppo emotivi è una debolezza e non una risorsa. Riuscivano meglio a comprendere le altre persone. Stabilivano rapporti di amicizia più solidi con i coetanei. Erano migliori anche nel rendimento scolastico. In breve, avevano sviluppato un tipo di Q.I. (quoziente di intelligenza) che riguardava le persone e il mondo dei sentimenti, ovvero un'intelligenza emotiva.”

“L'Allenamento emotivo ci fornisce uno schema basato sulla comunicazione emozionale. Quando i genitori offrono empatia ai loro figli e li aiutano ad affrontare sentimenti negativi come la collera, la tristezza e la paura, gettano tra sé e loro un ponte di lealtà e attaccamento. All'interno di questo contesto, sebbene i genitori-allenatori pongano effettivamente dei limiti ai loro figli, il fatto che questi ultimi si comportino male non è più la questione più importante. La docilità, l'obbedienza e la responsabilità derivano da un senso di amore e di interdipendenza che il bambino percepisce all'interno della famiglia. In questo modo, le interazioni emozionali tra i membri della famiglia diventano il fondamento attraverso cui si trasmettono i valori e si crescono individui moralmente retti. I figli, in questo modo, si comportano secondo gli "standard" familiari perché comprendono intimamente che ci si aspetta che si comportino bene, che vivere rettamente è implicito nell'appartenenza al clan.”

“La chiave per essere genitori di successo non si trova in teorie complesse, in regole familiari elaborate o in contorte formule comportamentali. Essa si trova nei sentimenti più profondi di amore e di affetto per i figli, e si dimostra semplicemente, attraverso l'empatia e la comprensione. Una buona educazione dei figli comincia dal cuore dei genitori, e poi continua, momento per momento, nello stare vicini ai figli quando la tensione emotiva cresce, quando essi sono tristi, arrabbiati o spaventati. L'essenza dell'essere genitori consiste nell'esserci in un modo particolare, quando esserci conta davvero. [...] Chiamo i genitori che si sono fatti coinvolgere nei sentimenti dei figli «allenatori emotivi», «genitori-allenatori». Proprio come gli allenatori nell'atletica, essi insegnano ai figli delle strategie per affrontare gli alti e bassi della vita. Non si oppongono alle manifestazioni di collera, tristezza o paura dei loro figli. Ma neppure le ignorano. Al contrario, accettano le emozioni negative come un fatto della vita, e usano i momenti emozionali come opportunità per impartire ai figli lezioni di vita e costruire relazioni sempre più strette con loro. [...] Tra i genitori che non riescono a insegnare l'intelligenza emotiva ai loro figli, ho identificato tre categorie:

1) Genitori noncuranti, che sminuiscono, ignorano o sottovalutano le emozioni negative dei figli.
2) Genitori censori, che criticano le espressioni di sentimenti negativi e che possono arrivare a rimproverare o punire i figli per queste manifestazioni emotive.
3) Genitori lassisti, che accettano le emozioni dei figli e si dimostrano empatici, ma non riescono a offrire loro una guida o a porre limiti al loro comportamento.”

(J. Gottman - J. De Claire, Intelligenza emotiva per un figlio, trad. it. di A. Di Gregorio e B. Lotti, Rizzoli, Milano 1999, pp. 10-12 e 17-18).

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martedì 14 dicembre 2010

Voglia di riuscire e paura di sbagliare

 

Negli anni Sessanta del Novecento, lo studioso statunitense John W. Atkinson (1923-2003) ha elaborato una teoria ben precisa riguardo alla voglia di riuscire e alla paura di non farcela.

Secondo Atkinson gli individui, quando si trovano di fronte a un determinato compito o ad un obiettivo da raggiungere, sono sollecitati da due spinte motivazionali contrapposte:

la tendenza al successo (speranza di riuscita)
e la tendenza a evitare il fallimento (paura dell'insuccesso).

paura di sbagliare

La prima spinge le persone a impegnarsi in compiti difficili (ma percepiti come fattibili), mentre la seconda le induce a scegliere compiti più facili (per i quali il fallimento è improbabile) o, all'opposto, estremamente difficili (per i quali questa eventualità è attribuibile a cause indipendenti dalla loro responsabilità).
Naturalmente, il ruolo e il peso di queste due tendenze variano considerevolmente da individuo a individuo: esistono persone "paralizzate" dalla paura di fallire; altre che amano mettersi in gioco in attività molto impegnative; altre ancora in cui la speranza del successo e la paura del fallimento si bilanciano. Combinando tra loro le diverse possibilità, Atkinson ha individuato 4 tipologie differenti di soggetti:

over-strivers, con alta tendenza al successo e alta tendenza a evitare il fallimento;
success-oriented, con alta tendenza al successo e bassa tendenza a evitare il fallimento;
failure-acceptors, con bassa tendenza al successo e bassa tendenza a evitare il fallimento;
failure-avoiders, con bassa tendenza al successo e alta tendenza a evitare il fallimento.

Ad esempio, il ragazzo definito dai suoi insegnanti "poco motivato allo studio" rientra proprio in quest'ultima categoria: non crede nelle proprie possibilità di successo scolastico ed è allo stesso tempo angosciato dall'eventualità di fallire.

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lunedì 13 dicembre 2010

L’influenza sociale

 

Se vi si chiedesse di citare un caso di influenza sociale come esempio, è probabile che pensereste a situazioni in cui il fenomeno si manifesta con effetti deprecabili: un compagno che, sotto l'"influenza" di cattive amicizie, ha preso una brutta strada, o una persona insicura che tende a lasciarsi "influenzare" dagli altri. Tuttavia, anche se è indubbio che l'influenza sociale possa avere conseguenze negative, sono per fortuna molte le circostanze in cui l'influsso degli altri produce sulle persone effetti benefici, aiutandole a pensare e a comportarsi in modo più ragionevole e vantaggioso.

influenza sociale

Ad esempio, un bambino che non fosse sensibile all'influenza degli adulti rischierebbe di cacciarsi continuamente in situazioni pericolose e di fatto non riuscirebbe ad appropriarsi di quelle conoscenze e abilità che gli sono necessarie nella vita.
In generale, possiamo affermare che, in qualunque ambito, la discussione, la collaborazione e il progresso sarebbero impossibili se le persone fossero assolutamente "impermeabili" le une rispetto alle altre, incapaci cioè di superare i propri limiti grazie all'influenza reciproca.

Sappiamo che l'influenza sociale è un processo che dipende non soltanto dal soggetto o dai soggetti da cui proviene (la fonte), ma anche dall'individuo o dagli individui verso cui si esercita (il bersaglio). Quando una persona si trova esposta all'influenza degli altri, può reagire in molti modi. Cerchiamo di spiegarli immaginando il caso di un ragazzo non troppo motivato allo studio.

dormire a scuola

• Ipotizziamo che genitori e insegnanti cerchino di modificare la condotta svogliata dell'allievo ricorrendo a promesse, minacce, punizioni. Può darsi che il ragazzo, allettato da qualche prospettiva di ricompensa, o semplicemente desideroso di evitare problemi, cambi il proprio atteggiamento, pur restando intimamente maldisposto nei confronti della scuola. In questo caso si è prodotta quella che lo psicologo statunitense Herbert C. Kelman (nato nel 1927) definisce acquiescenza (compliance), ossia un cambiamento puramente esteriore, indotto dalla possibilità di ricevere ricompense e punizioni dalla fonte.

• Possiamo anche immaginare che lo studente svogliato, a un certo punto, si innamori perdutamente di una compagna di scuola e ne sia ricambiato. La ragazza ha un ottimo profitto scolastico e manifesta stima e considerazione per gli studenti capaci. È possibile allora che il nostro soggetto, spinto dall'amore per la compagna e fortemente motivato a mantenere la relazione con lei, si cali perfettamente nella parte dell'alunno studioso, arrivando a essere credibile perfino a se stesso. Questa risposta del ragazzo può venire ricondotta a quella che Kelman chiama identificazione (identification), che è la modificazione di comportamenti, azioni e pensieri al fine di stabilire o mantenere una relazione gratificante con la fonte, in virtù dell'ascendente che questa ha su di lui.

• Possiamo infine immaginare che il nostro studente, a un certo punto della sua carriera scolastica, incontri una persona (un compagno, un insegnante) che riesca a fargli cogliere il valore dello studio e a suscitare in lui un atteggiamento positivo nei confronti della scuola. L'influenza di questa persona farà sì che il ragazzo ne accolga gradualmente le ragioni e i punti di vista, facendoli propri e diventandone sempre più convinto. In questo caso, secondo Kelman, si è verificata l'interiorizzazione (internalization), cioè un mutamento non solo esteriore, ma integrato in un sistema di valori e di credenze profonde.

Acquiescenza, identificazione e interiorizzazione sembrano significativamente correlate a precise caratteristiche della fonte di influenza. Una fonte potente, capace cioè di dispensare premi e punizioni, tenderà a produrre acquiescenza; una fonte attraente metterà probabilmente in moto un processo di identificazione; una fonte credibile, infine, stimolerà un'accettazione motivata dei contenuti, e quindi un'interiorizzazione.


venerdì 10 dicembre 2010

La psicologia oggi

 

Le molte aree di ricerca e di applicazione della psicologia.

psicologia

Oggi la psicologia si presenta come una disciplina articolata in molte aree di studio di applicazione. Alcune di esse corrispondono agli ambiti "classici" di ricerca che si sono via via delineati nel corso della sua storia. Ad esempio:

• la psicologia cognitiva, che studia i processi mentali (come la percezione, la memoria, l'intelligenza, l'elaborazione delle informazioni e la soluzione di problemi);

• la psicologia evolutiva (chiamata anche psicologia dello sviluppo), che cerca di comprendere in che modo i tratti psichici delle persone cambino nel corso della vita, dalla nascita fino alla vecchiaia;

• la psicologia clinica, i cui fini sono lo studio e il trattamento dei comportamenti ritenuti "patologici", cioè tali da impedire un adattamento soddisfacente dell'individuo all'ambiente;

• la psicologia sociale, che studia le interazioni tra l'individuo e altre persone, gruppi o istituzioni sociali.


Vi sono poi filoni di ricerca più specifici, nati dagli stimoli provenienti da ambiti di esperienza diventati sempre più rilevanti nella società contemporanea, come:

• la psicologia dell'educazione, interessata a mettere in luce i meccanismi psicologici implicati nell'esperienza educativa e nelle attività didattiche;

• la psicologia della comunicazione, che studia gli aspetti psicologici delle attività comunicative;

• la psicologia giuridica, che trasferisce i contributi del sapere psicologico ai vari ambiti della pratica forense (come i processi o la realtà carceraria);

• la psicologia del lavoro, interessata a studiare gli effetti psicologici delle attività lavorative e nel contempo a fornire alle aziende gli strumenti per la selezione e l'orientamento del personale.


lunedì 6 dicembre 2010

Sogni: 10 cose che bisogna sapere.

 

Ecco 10 cose interessanti e strane riguardo ai sogni.

1) Durante la durata media di una vita umana si passano ben 6 anni a sognare.

2) Quando si sogna, le emozioni negative come la rabbia e la paura sono le più comuni.

3) La maggior parte delle persone fanno in media da 4 a 7 sogni per notte.

4) Anche gli animali sognano.

5) Se stai russando allora non stai sognando.

6) Mangiare formaggio prima di andare a letto non provoca incubi, anzi, favorisce il sonno.

7) Nei sogni lucidi è possibile controllare il sogno ed è possibile fare qualunque cosa, come ad esempio volare.

8) Nei primi 10 minuti subito dopo il risveglio si dimenticano il 90% dei sogni fatti.

9) Si può sognare solo ciò che già si conosce. Le facce delle persone sognate, ad esempio, sono basate su quelle che si sono viste durante lo stato di veglia.

10) Alcune ricerche scientifiche pionieristiche stanno tentando di trovare un modo per registrare i sogni.

 

Di seguito potete vedere il filmato da cui ho tratto i dieci punti che ho scritto sopra.

Buona visione.

10 fatti strani riguardo ai sogni

domenica 21 novembre 2010

La scuola fa male

 

Leggendo il titolo di questo post si potrebbe pensare che si voglia parlare di fenomeni come il bullismo, lo stress, i presidi e gli insegnanti picchiati, il burnout, ma in realtà c’è qualcosa di più profondo nella frase “la scuola fa male”.

Ovviamente l’affermazione non va interpretata in senso assoluto. Sappiamo che a scuola abbiamo imparato a leggere, a contare e poi anche… e poi… Ok, mi arrendo, mi mancano le parole. E poi ci sono molti bambini che imparano a leggere e a contare prima di andare a scuola! Non prendiamoci in giro…

Ok ma, nel frattempo che la scuola ci fa fatto imparare qualcosa che potevamo tranquillamente imparare da soli, cosa ci ha fatto disimparare che non potevamo disimparare da soli?

Nei due filmati che vi presento capirete perché la scuola uccide la creatività. Con un linguaggio davvero brillante, a tratti comico, ma con un contenuto profondo, l’oratore ci guida nei meandri dei profondi errori educativi dell’istruzione moderna.

Da non perdere assolutamente.

Buona visione.

La scuola fa male (parte 1)

 

La scuola fa male (parte 2)

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sabato 6 novembre 2010

Voglio cambiare vita

 

Voglio cambiare vita! Si tratta di uno dei desideri più intensi e frequenti che una persona possa formulare. E’ il desiderio di coloro che si sentono ammuffire dietro ad una scrivania o che detestano qualsiasi altro lavoro poco gratificante.

Come si fa a cambiare vita? In realtà il desiderio di cambiare vita è uno dei desideri più “falsi” che esistano.

Secondo molti psicologi il desiderio di cambiamento è controbilanciato dalla paura, più o meno inconsapevole, di dover rivoluzionare tutto della propria esistenza. Sai cosa lasci, ma non sai cosa trovi. Molti si lasciano bloccare da questa paura e non riescono ad andare oltre ai loro sogni ad occhi aperti.

Mi sono fatto un’idea molto personale riguardo al desiderio di cambiare vita. Come dicevo prima sono convinto che sia quasi sempre un “falso” desiderio, nel senso che chi vuole cambiare vita in realtà non sa “cosa” cambiare. Si percepisce un’insoddisfazione che però resta sempre molto vaga. Generalmente si vorrebbe viaggiare, andare in posti esotici, avere molti più soldi, un lavoro divertente, un rapporto sentimentale più soddisfacente. Si tratta di desideri così vaghi che il cambiamento non può avvenire perché non si sa esattamente cosa fare per ottenerlo. Si tratta di desideri simili a quelli che hanno coloro che sognano di vincere al superenalotto e poi fantasticano pensando “un milione di euro li divido ai miei parenti, altri due milioni mi ci compro una villa, un altro milione lo uso per fare beneficienza…”, ma alla fine nemmeno ci giocano al superenalotto!

Queste persone amano fantasticare ma in realtà non hanno nessun vero desiderio di cambiare vita. La fantasia per loro è più gratificante della soddisfazione del desiderio stesso! Se per puro caso dovessero cambiare vita realmente, comincerebbero quasi subito a pensare che “si stava meglio quando si stava peggio”. Quante volte avete sentito dire questa frase da persone che conoscete? Oppure quante volte voi stessi avete pensato esattamente la stessa cosa?

Smettiamola di dire “voglio cambiare vita” perché non è vero. Al limite cambiamo le nostre fantasie di cambiamento Occhiolino

Si tratta pur sempre di fantasie consolatorie in cui siamo sempre protagonisti, al centro dell’attenzione, forti, in una situazione di vantaggio su tutti. Tutte cose che nella “vita reale”, sfortunatamente, non succedono quasi mai. In psicologia si parla di meccanismi di ipercompensazione.

Ovviamente non è sempre vero che queste “fantasiesiano destinate a restare tali per tutta la vita. Se vengono gestite con il giusto equilibrio si evita che si cristallizzino in meri “sogni impossibili” e inoltre si riesca a pianificare un vero piano d’azione per realizzare i propri obiettivi.

Molti sono i sogni che sembravano irrealizzabili che invece si sono realizzati e, anzi, ci hanno molto di più di quanto avevamo immaginato.

Lascio a voi l’esercizio di elencare questi sogni Occhiolino

Buon cambiamento della propria vita Sorriso

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martedì 7 settembre 2010

L’effetto nocebo

 

Numerosi studi antropologici evidenziano come in gruppi fortemente caratterizzati dal punto di vista etnico e religioso, l’efficacia simbolica dei rituali può trasformarsi in una pratica terapeutica non scientifica, tanto da attivare guarigioni apparentemente miracolose o, nei casi meno fortunati, scatenare effetti deleteri per l’organismo.

Che lo stress emotivo possa produrre alterazioni viene dimostrato dal fisiologo Walter Bradford Cannon, che studiò come nelle popolazioni aborigene dell’Australia alcuni rituali dello stregone potessero produrre cambiamenti dannosi nel fisico delle persone.

Tali avvenimenti sembrano appartenere a luoghi remoti o a culture distanti dalla nostra, ma non è così.

Tutti noi potremmo subire il potere della suggestione, una suggestione che può provocare in noi una risposta o positiva o negativa. Parliamo dell’effetto placebo e del suo esatto contrario: l’effetto nocebo.

Studi clinici rigorosi dimostrano che il potere della suggestione può farci star meglio, sollecitando risposte positive nei confronti di un farmaco o di un comportamento. E’ il cosiddetto “effetto placebo”, che produce effetti fisici misurabili.

Finte medicine e aspettative negative possono dare risposte negative e quindi risultare dannose: stiamo parlando dell’effetto nocebo, opposto e cattivo gemello del placebo.

E’ stato dimostrato che il 60% dei pazienti sottoposti a chemioterapia, cominci a provare nausea prima ancora dell’inizio del trattamento. Il solo pensiero o la voce del medico sono sufficienti perché il paziente si senta male.

Mentre molta ricerca è stata svolta sull’effetto placebo, molto limitata è quella che riguarda l’effetto nocebo.

Il punto della situazione riguardo alle ricerche sull’effetto nocebo lo potete vedere nel filmato qui presentato. Si tratta di un video tratto dalla trasmissione Superquark (la serie del 2010) a cura di Piero Angela.

Buona visione.

martedì 3 agosto 2010

Gradiva

 

Il nome Gradiva, letteralmente "colei che cammina", le venne attribuito da Wilhelm Jensen in una novella, intitolata appunto Gradiva. Una fantasia pompeiana (1903).

Gradiva

Qui l'autore narrava di un giovane archeologo tedesco, Norbert Hanold, che a Roma in un museo vede un rilievo e ne rimane affascinato. Acquistatone un calco che porterà con sé, inizia a sognare: immagina Gradiva avanzare per le strade di Pompei e la segue finché ella non scompare nella notte dell'eruzione del 79 d.C.

Da sveglio, decide di partire per la città vesuviana, dove vedrà una fanciulla con le fattezze dell'immagine impressa nel marmo e scoprirà con felice sorpresa che si tratta di una ragazza, già sua compagna di giochi nell'infanzia e con il tempo dimenticata.

Fu Carl Gustav Jung che segnalò tale novella a Sigmund Freud (1856-1939), il quale esaminò il caso letterario come un caso psichiatrico. Nel saggio Delirio e sogno nella "Gradiva" di Jensen (1906) Freud prese spunto dalla vicenda letteraria per spiegare come le sollecitazioni esterne possano portare in superficie tensioni psichiche nascoste nell'intimo. Queste ultime si esprimono talvolta nella forma del delirio, come nel caso del protagonista, che vive un'esperienza tra realtà e immaginazione. A sua volta Freud, collezionista di arte antica, visitò il Museo Chiaramonti (in una lettera scrisse del suo "incontro" con la Gradiva) e del rilievo lì in esposizione acquistò un calco in gesso che tenne alla parete del suo studio vicino al celebre divano-lettino, sul quale si distendevano i pazienti.

Gradiva Freud

Calco in gesso della Gradiva nello studio di Freud. Foto von Edmund Engelman, 1938.

 

Il rilievo è parte di una composizione che prevede una triade femminile avanzare da destra, secondo una ricostruzione effettuata sulla base di ulteriori esemplari a Monaco e agli Uffizi; le tre fanciulle si muovevano in
parallelo con una seconda triade femminile: sono le cosiddette Horai e Aglauridi, probabilmente ispirate da un originale greco del IV secolo a.C.

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mercoledì 21 luglio 2010

I sogni dei bambini

 

Non è possibile sapere se prima dei tre anni si verificano dei sogni: la mancanza del linguaggio verbale non consente di averne prove certe. Come stabilire infatti se i sorrisi che possiamo osservare nel bimbo piccolo che dorme sono dovuti ad automatismi sensomotori o ad esperienze oniriche?

Dopo i tre anni compare la capacità di raccontare, ma manca ancora la maturità cognitiva che consente di elaborare il concetto di sogno, e di distinguerlo dalla fantasia della veglia.
Secondo Freud i sogni infantili sono estremamente chiari, brevi, coerenti: è molto facile capirli, poiché il loro contenuto è trasparente. Si tratta in genere dell'adempimento di un desiderio diurno, o la copia fedele di vicende familiari e scolastiche. È solo dalla terza infanzia che, a seguito dello sviluppo psicosessuale e dello strutturarsi della personalità, inizia a formarsi il sogno simbolico, con contenuti mascherati e spesso enigmatici come quello degli adulti.

Studi di psicologia cognitiva hanno osservato che intorno ai tre anni il contenuto dei sogni pare essere piuttosto statico: la partecipazione personale è scarsa, poche le interazioni sociali, prevalenza di animali. Negli anni successivi l'elaborazione del sogno segue le fasi dello sviluppo cognitivo e affettivo: compaiono personaggi fantastici, luoghi immaginari. Il pensiero si fa più astratto e si condensa in simboli.

E’ facile che il bambino, anche molto piccolo, abbia degli incubi, che non sa nemmeno raccontare. A volte si verificano dei sogni ricorrenti, quasi a riflettere un blocco che non riesce a superare. È importante in questi casi accogliere le sue associazioni spontanee, cioè tutte le notazioni e le impressioni che aggiunge di sua iniziativa: farlo raccontare, fargli disegnare il racconto, lasciar emergere il nocciolo dell'angoscia dell'incubo.

Soprattutto cercare di evitare di alimentare la paura dei sogni, come purtroppo fa la bambinaia in un racconto di E.T.A. Hoffmann, riferendosi ad una popolare credenza anglosassone: «Non sai chi sia il Mago Sabbiolino? È un uomo cattivo che viene dai piccini, quando questi non vogliono saperne di andare a nanna, e getta loro delle manate di sabbia negli occhi, finché questi sgusciano via dal capo tutti sanguinolenti; allora egli se li butta nel sacco e al chiaro di luna li porta in cibo ai suoi piccolini; questi stan nel nido e hanno il becco storto come i gufi; con esso si beccano gli occhi dei bimbi disobbedienti»

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[Bibliografia: Olga Chiaia, “Il sonno e il sogno”, Tascabili Economici Newton.]

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lunedì 5 luglio 2010

Il Triangolo di Penrose con il Lego.

 

Le illusioni ottiche hanno sempre un certo fascino. In questa immagine possiamo vedere una famosa illusione ottica, il Triangolo di Penrose (detto anche triangolo impossibile) ottenuta con dei semplici mattoncini Lego.

Triangolo di Penrose

Con il Lego la costruzione prospettica è venuta davvero perfetta e l’illusione funziona davvero :-)

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venerdì 2 luglio 2010

Gemma del Sud: la donna più famosa su YouTube

 

Non è la donna più famosa in senso assoluto, ma è la più famosa del momento. Gemma del Sud è diventata veramente un mito. Non sa cantare, non sa ballare, non è bella, non è colta, eppure è diventata in pochissimo tempo una donna famosa. Su Youtube i suoi video contano decine di migliaia di visualizzazioni e sono sono commentati da centinaia di utenti.

Si tratta di un fenomeno che incuriosisce, perché mette in crisi tutti i nostri schemi mentali. Di solito crediamo che una persona per diventare famosa debba avere delle qualità, per così dire, estreme; quindi essere molto brava in qualcosa, oppure avere compiuto un’azione eroica, positiva, o anche avere commesso un delitto. O pensiamo che debba essere molto bella, che abbia delle qualità artistiche, delle capacità sportive. Invece sempre più spesso raggiungono la notorietà individui che non hanno nessuna delle qualità finora elencate e che non hanno mai compiuto le azioni che ho detto prima. E’ il caso di Gemma del Sud.

Per farvi capire di che si tratta, intanto guardatevi questo filmato.

Imbarazzante? Però 230000 visualizzazioni in due settimane forse non le riesce a fare nemmeno un video dei Pink Floyd! I commenti sono centinaia, ma anche se si tratta prevalentemente di insulti, è indicativo che questo filmato di Gemma del Sud e tanti altri che potete trovare facilmente su YouTube hanno avuto un effetto virale davvero incredibile! E poi ci sono anche i video delle imitatrici e di quelli che la prendono in giro. Una reazione a catena davvero inarrestabile.

Insomma, ci sono professionisti dello spettacolo che nella loro vita non sperimenteranno mai un successo del genere!

Questo esempio ci insegna una cosa: i meccanismi che permettono di raggiungere (o di far raggiungere) successo e notorietà sono contenuti nei meandri della nostra mente e non sono così scontati come spesso crediamo. Non è detto che ci vogliano per forza le raccomandazioni e nemmeno, come molto pensano, che sia necessario elargire favori sessuali a persone potenti, ma forse è sufficiente semplicemente saper “pizzicarele giuste corde della psiche del pubblico.

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martedì 25 maggio 2010

Come fare l’amore. Un approccio scientifico.

 

Il sesso resta un tabù anche nella nostra civiltà piena di eccessive libertà. Questo succede perché in realtà è difficile gestire le profonde emozioni legate alla sessualità. Il sesso genera ansia sia negli uomini che nelle donne, ma l’insicurezza psicologica che ne deriva può essere arginata proficuamente con la conoscenza. Per questo motivo è opportuno fornire ai giovani le conoscenze fondamentali sulla sessualità e sul rapporto sessuale.

fare l'amore (Amore e Psiche)

Molto spesso sono infatti i più giovani ad avere le idee e le convinzioni più distorte e questo a causa della diffusione della pornografia e di una mentalità che tende ad avere scarso rispetto del corpo femminile e che predica anche un tremendo egoismo.

In questo filmato possiamo leggere molte cose interessanti riguardo alla sessualità umana e vi si sfatano anche alcuni celebri “miti” come l’orgasmo vaginale e il “punto G”. I contenuti si riferiscono al 9° Congresso Europeo di Sessuologia EFS (European Federation of Sexology), Roma 2008 (Dr. V. Puppo. Medico-Sessuologo).

Le slide del video scorrono piuttosto velocemente, quindi se volete leggerle con la dovuta calma vi conviene cliccare sul pulsante di pausa (||) e poi di nuovo play (il triangolino) per ripartire.

Buona visione.

giovedì 20 maggio 2010

Jung e la sincronicità

 

Jung e il concetto di sincronicità. Si tratta di un affascinante sviluppo della psicologia di Jung tesa a spiegare le coincidenze significative nella vita quotidiana. Jung nel 1930 per la prima volta usò il termine sincronicità per descrivere una connessione non causale fra stati psichici ed eventi oggettivi.

In questo video possiamo sentire anche un caso famoso di sincronicità, tratto dal racconto di un caso di una paziente di Jung e narrato dalla voce dello psicologo e psicoterapeuta Roberto Ruga. Si tratta del caso dello scarabeo.

Buon ascolto e buona visione.

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